CURIOSITÀ
La segue anche a costo della vita: un maschio che non delude mai è "u piscispata"
Un racconto d'infanzia condito con un po' di sana ironia. Luoghi comuni e miti da sfatare tra verità e leggenda nella Sicilia raccontata dai pescatori sulle loro barche
Particolare dell'opera di Serafina Costa "Evolution flight, la danza dei pescespada"
Da nico, era prassi che passassi le vacanze estive nella provincia di Messina, luogo di origine di mio nonno, dedicandomi, quasi totalmente, ad attività marittime di ogni tipologia, avendo lui questa ex casetta di pescatori che se mi affacciavo dalla finestra nei giorni ventosi mi bagnavo come un puddicinu.
Ma una cosa più di tutte mi torna in mente di quel periodo, quando sentivo la voce di mio nonno che, sorridente sotto i suoi baffoni ed il cappello di paglia incarcato in testa, mi svegliava prima dell’alba per andare con lui alla piazzetta dei pescatori.
Arrivati, a volte, c'erano sempre le stesse persone, una coppia, mugghieri e maritu, ed altri due signori con i quali ci si scambiava dei cenni di saluto.
"Amunì...ccà sunnu!"
I pescatori a bordo avevano gli occhi a pampinedda di chi aveva passato la notte in bianco e noi che eravamo a riva, entrati in acqua fino alle ginocchia accompagnavamo la barca sulla spiaggia.
O almeno io credevo di farlo, perché suppongo che il lavoro fosse in realtà svolto da mio nonno e gli altri adulti presenti. Accuminciavano a niescere ra sutta a barca panara pieni di pesce, avughie, custairdelle, buddaci, (da cui deriva l’ inciuria dei messinesi), spatule, tutti ancora a satariare nella spasmodica ricerca di ossigeno (a ripensarci mischini che malafine).
A quel punto mio nonno, aiutato dai pescatori, mi isava in capo a vairca e mi faceva scegliere, con le dovute correzioni date dal suo occhio esperto, il pesce da fare la sera alla brace, che io già parevo muzzicato dalla tarantola per la contentezza di fare il fuoco.
«Marescià, a posto?», che in Sicilia tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine di ogni ordine e grado sono sempre e solo marescialli, «A posto! Ancora vivo è! Quant’è?», «Va bene così marescià...» e mio nonno isava le manone a pararisi i ravanzi, «Maimaria... u travagghiu si paga quello che è giusto», mi dava il coppo del pesce in "braccio" e pagava i pescatori.
Prima di andare via, il più anziano di tutti, nivuru che pariva un turcu, prendeva sempre una manata di sarde e le metteva nel coppo, «E chiste ci fa friute o picciriddu».
Una mattina, assieme alle lanzitiedde, ne arrivò una più grossa, che aveva un albero alto alto e un "ponte" sulla prua, carica di pesci grandi che parevano tonni a portavano sul muso una cosa lunga lunga che pareva una spada.
A me venne subito in mente la leggenda di Colapesce, che in una delle sue tante varianti antropomorfe aveva un lungo rostro sulla testa, ma mio nonno, con una manona sul cozzo, mi disse che al massimo quelli potevano essere i pro-pro-pro-pro nipoti di Colapesce.
Vabbeh prima che mi scende la lacrimuccia, pare che Zeus, sempre arrapato come un cinghialotto, assunse le sembianze di una formica per godere dell’intimità di Eurimedusa, comune mortale, la quale evidentemente aveva una passione viscerale per l’entomologia.
Da quell’unione nacque Mirmidone dal quale derivò la popolazione dei Mirmidoni, il cui re indiscusso divenne Achille. Si, proprio quell’Achille che aveva nel tallone il suo unico punto debole e che, sprezzante del pericolo, aveva la pessima abitudine di combattere in sandali di cuoio.
Quando Ulisse chiese al re Achille di partecipare all’espugnazione di Troia, lui se la tirò un po'.
«Ma sai com’è per ora ho il torneo di calcetto, i picciotti ci tengono», ma alla fine, chiamati a raccolta i suoi Mirmidoni, lancieri di inimitabile maestria, ubbidienza, disciplina e combattività, (d’altronde in greco antico myrmex significa proprio formica), andò a fare la storia.
Sappiamo tutti come finì la cosa, e purtroppamente Achille, che onestamente poteva anche pensare di indossare una calzatura più adeguata, non ne uscì troppo bene.
Ai Mirmidoni sta cosa un ci potte calare, e al grido di “pi un coinnutu un coinnuto e mezzo” attaccarono i troiani con l’intento di sterminali. Quest’ultimi, erano troiani sì, ma mica fissa, per cui scapparono della bella senza farsi trovare, privandoli dell’agognata vendetta. Stanchi, pigliati dalla botta, arraggiati come aceddi na aggia, i Mirmidoni non trovarono di meglio che gettarsi in mare e lasciarsi affogare.
Fu lì che Tetide, ammirando il loro orgoglio e lealtà, ebbe pietà di loro e decise di traformarli in maestosi e combattivi pesci dotati di una lunga lancia a perpetuo ricordo dell’arma di cui erano padroni indiscussi.
A conferma di questa leggenda, u lanzaturi, il marinario che gestisce l’arpione, all’approssimarsi della preda inizia ad instaurare un dialogo con il pesce, una litania in un greco molto imbastardito dal dialetto sia siciliano che calabrese, che dovrebbe avere il potere di ipnotizzare il pesce e farlo avvicinare alla barca in modo inoffensivo.
La cosa, probabilmente, non deve funzionare proprio benissimo, dato che era usanza dell’‘ntinneri, ovverosia il marinaio che sta sulla torretta di avvistamento e che abbannia, agitando una bandierina bianca, appena vedeva u piscispada, di invocare San Marcu u binirittu per proteggere l’imbarcazione dalla furia combattiva del pesce.
Finita la lotta, quando il pescespada riusciva ad essere catturato ed issato a bordo, si procedeva alla caddata ra cruci, cioè l’arpionatore, utilizzando le unghia delle dita della mano, escluso il pollice, incideva una croce sulla branchia destra, in segno di rispetto sia per il Santo che per l’animale stesso.
Notizie della pesca di questo maestoso pesce, si hanno già nel II secolo a.C., quando Polibio nelle sue opere, descrive le gesta del pescatore che seduto pazientemente su di uno scoglio, aspetta, armato di arpione, di avvistarlo ingaggiando una frenetica lotta.
Il pescespada fu pure usato come regalo di pregio nei confronti di Papa Leone XIII, nel 1896, accompagnato da un poemetto dell’umanista Diego Vitrioli, e persino il grande Domenico Modugno gli dedicò una canzone, “U Pisci Spada”, che narra dell’amore del maschio per la sua femmina.
Questo lo sanno bene gli spatari, i quali sono coscienti del fatto che questi pesci sono spesso in parigghia, ovvero a coppia, e che la prima ad essere arpionata dev’essere la femmina, dato che il maschio non l’abbandonerà mai al suo destino, ma le starà accanto, combattendo con una furia cieca fino alla fine per cercare di aiutarla e liberarla, fino al momento in cui anche lui verrà arpionato sacrificando la sua vita.
La cosa non è ricambiata, poiché la femmina non ci penserà su neppure mezza volta a scappare se sarà il maschio ad essere arpionato.
Donne, per essere sicure del vostro uomo fatevi promettere da lui l'amore di un piscispata e maschietti... state accura!
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