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La marsalese "vittima" di mafia insieme al marito (ucciso): la storia di Filippa Di Dia

Vito Pipitone, contadino e sindacalista, fu raggiunto da un colpo di fucile che cambiò la vita della moglie e dei 4 figli. La storia di chi resta, tra rabbia e sacrifici

Jana Cardinale
Giornalista
  • 25 agosto 2022

Filippa Di Dia e Vito Pipitone

Gli ideali e il sacrificio, le battaglie e la dignità. Il lutto, per molti anni dimenticato, e poi onorato da chi vuole proteggere la memoria e il suo nobile fine portando avanti quei valori di giustizia sociale che hanno ispirato la vita di tante vittime, e la sua, quella di Filippa Di Dia, marsalese, madre di quattro figli, rimasta vedova del marito, il sindacalista Vito Pipitone, a 37 anni, mentre lui moriva a 39 anni per mano mafiosa.

Una storia rimasta impigliata tra le pieghe delle pagine più tristi e oscure delle cronache cittadine, in un tempo obliato nella consuetudine della sopravvivenza, che ha pazientato, fino a rivelarsi e a diventare, oggi, verità incontenibile.

Filippa Di Dia, morta il 19 maggio 1989, ha avuto quattro figli: Piero, che ha 83 anni, Maria Pia, che ne ha 81, Antonio, che ne ha 79, e prima Melchiorre, scomparso all’età di 14 anni perché gravemente malato.

Dolori su dolori, per questa donna forte, che ha accompagnato il marito, contadino e impegnato in prima linea per garantire i diritti dei più indifesi con Confederterra, nel suo percorso di ribellione alle ingiustizie, fino a morire, ucciso nelle campagne marsalesi l’8 novembre del 1947, esattamente in una traversa della via Bue Morto.
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La sua storia l’ha tramandata proprio il figlio Antonio - che nel tempo ha voluto anche incontrare i ragazzi delle scuole, per raccontare la passione del padre - e la nipote Marianna, che abitava a due passi da lei.

Dopo la morte del marito, Filippa è rimasta in grandi difficoltà economiche, ma da sola ha cresciuto i suoi figli, piegandosi alle esigenze dure della vita.

Viveva in contrada Ponte Fiumarella, nel versante sud della città, a meno di un chilometro dal luogo in cui Vito è stato ucciso da un colpo di fucile allo stomaco, mentre in bicicletta andava a trovare la madre.

Solitamente portava con sé il figlio Antonio, ma quella sera no. Diverse ore dopo l’episodio i carabinieri andarono a casa e avvisarono Filippa che Vito era in ospedale, dove mori il giorno dopo, ma lei non riuscì mai a parlargli, perché era costantemente piantonato.

Come ha vissuto da allora Filippa Di Dia, per superare la vita? Ricamava la notte, con la lampada a petrolio, e di giorno accudiva i figli ancora troppo piccoli.

Antonio a quattro anni andò a lavorare, così come fece Piero, poco più grande, mentre Maria Pia si occupava del fratellino malato, ricamava al contempo e lavava e stirava i vestiti per altre persone.

Una vita molto difficile, ma estremamente dignitosa per questa famiglia, guidata da una madre dall’animo nobile, che ha sofferto senza ricevere sostegni.

Da circa una decina d’anni esiste un luogo che ricorda l’eccidio del sindacalista grazie a "Libera contro le mafie", che in un terreno appartenente alla famiglia Pipitone ha voluto che sorgesse una stele, per commemorare quest’uomo che subì una sorte simile a quella che toccò in quegli anni a Placido Rizzotto, Accursio Miraglia e Salvatore Carnevale, convinti sostenitori della possibilità di applicare anche in Sicilia la nuova legislazione in materia di agricoltura varata dal governo nazionale e dal ministro Fausto Gullo.

Le nuove norme, però, non erano ben viste da tanti "signorotti" dell’epoca, che non esitarono a mettersi d’accordo con la mafia per sbarazzarsi dei sindacalisti più determinati a difendere i diritti degli operai.

Dopo anni di ricordi grazie al locale presidio di ‘Libera’, oggi la vita e la storia di Filippa Di Dia diventa nota a tutti, grazie a un testo teatrale nato da una promessa fatta ad Antonio Pipitone da Chiara Putaggio, che coltiva con successo l'amore per il teatro e per la sicilianità in modo particolare.

«Gli ho detto che avrei lasciato segno del sacrificio di suo padre, ma ho deciso di dar voce a Filippa, perché le vittime non sono solo quelle che perdono la vita, ma anche tutte le persone che restano, e che in questo caso lo hanno amato, la cui vita cambia inevitabilmente».

Un lavoro che verrà messo in scena il 26 agosto, con la regia di Francesco Stella, e le musiche di Gregorio Caimi, alle storiche Saline Genna.

«Quando Gregorio e Chiara mi hanno chiamato non ho avuto dubbi ad accettare, perché si tratta di poter lavorare nella mia terra, ed è una cosa che non avviene di frequente – dice l’attore, autore televisivo e regista marsalese Francesco Stella, che da anni vive a Roma dove è impegnato nel mondo dello spettacolo e della televisione, tra fiction, spot pubblicitari e programmi di intrattenimento e approfondimento - e che mi suscita un sentimento di appartenenza totale, per il luogo meraviglioso in cui verrà proposto e per la storia.

Filippa è un personaggio che ho amato da subito perché che è il simbolo di chi resta. Chi muore è chiaramente vittima, ma lo è anche chi rimane, e lei è stata una donna molto forte che ha fatto una scelta. Siamo stati molto attenti affinché chi assisterà non abbia mai il dubbio che era la classica ‘fimmina’ del 1947, succube e che non parlava.

In realtà lei è parte attiva nella lotta del marito, e sceglie di portarla avanti per un diritto fondamentale che ha a che fare con la dignità della vita e del lavoro, e in questa scelta per un ideale più grande sceglie di poter perdere il marito. Per questo doppiamente è vittima: perché ha perso anche una battaglia non avendo avuto uno Stato che interviene quando succede tutto questo».

«Questo Stato è come un lenzuolo bianco, ma sotto c’è il sangue di un morto», dirà Filippa in un momento della rappresentazione.

È una vicenda che ricorda un pezzo di Marsala che i marsalesi non conoscono. Un personaggio fondamentale nella storia per i diritti dei contadini lilibetani, e non solo, e per questo anche un’operazione interessante dal punto di vista della memoria.

«Ho appreso la storia attraverso l’Associazione Libera e più di dieci anni fa ho incontrato il figlio Antonio che andava nelle scuole per far conoscere ai ragazzi l’impegno di suo padre – dice emozionata Chiara Putaggio, insegnante e giornalista - . A Vito è intitolato il presidio di Libera Marsala.

Il mio testo, Ed io l’amavo, racconta il punto di vista delle donne, quello che più mi è vicino».

Un omaggio, dunque, alla memoria di questa donna che lottava condividendo gli ideali del marito, rimasta sola con i figli, mentre Marsala per troppi anni ha parlato pochissimo di Vito Pipitone.

«Volevo lasciare qualcosa che potesse essere tramandato – aggiunge Chiara Putaggio - e le parole a questo servono. Le grandi battaglie, l'amore per la propria terra, la rabbia e le lacrime per le ingiustizie che ogni giorno i contadini subivano.

Tante cose sono cambiate da quando Vito Pipitone animava la lotta contadina, ma tante cose rimangono ancora ferme e ancorate a logiche mafiose e ingiuste. Filippa ha vissuto sulla propria pelle il sacrificio del marito assieme al valore di quelle battaglie, con l’intimo desiderio che non venissero dimenticate, affinché non si smetta mai di lottare».

Negli ultimi anni a Marsala diverse sono state le iniziative dedicate a Vito Pipitone, per puntare l’attenzione sul concetto di legalità e lavoro, in particolare in agricoltura, dove la strada da compiere è ancora lunga. L’omicidio di Vito Pipitone è ancora senza risposte: non si conoscono gli esecutori materiali, né i mandanti.

Si sa soltanto che la sera del 7 novembre 1947, mentre stava andando a trovare la madre in bicicletta, è stato raggiunto da quel colpo di fucile allo stomaco, per poi morire il giorno dopo in ospedale, senza nemmeno poter parlare con sua moglie.

Alla rappresentazione teatrale, un monologo in siciliano, intimo e sincero, interpretato da Adriana Parrinello, prenderanno parte i parenti di Filippa e Vito.

La storia di una donna che svela cosa c’è dietro la tribolazione di chi crede nella giustizia, per cantare l’anima, all’indomani dalla seconda guerra mondiale, di quella Marsala e di una famiglia, di una donna, che "amava suo marito".

Parole affidate alla suggestione del Teatro a Mare Pellegrino 1880, nell’incantevole scenario della riserva naturale delle isole dello Stagnone, dove la Salina Genna è tra le più antiche.
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