STORIA E TRADIZIONI
La fine di Akragas, "la più bella città dei mortali": tra stragi, fame e templi in fiamme
La città venne messa a ferro e fuoco. Fortificata dalla natura, con mura solidissime ed alte, costruite su scogli colossali. La storia di come avvenne la sua distruzione
Valle dei Templi, Agrigento
Agrigento era fortificata dalla natura e dall'arte con mura solidissime ed alte, costruite su scogli colossali. Era difesa poi dalla parte del mare da valli e da steccati, che ne impedivano la repentina aggressione.
Inviarono quindi degli ambasciatori proponendo un’alleanza agli akragantini o almeno la neutralità durante le guerre di conquista che Annibale e Imilcone, capitani dei Cartaginesi stavano conducendo nell’Isola.
Gli Akragantini rifiutarono ogni proposta. I Cartaginesi pertanto collocarono due torri di fronte alle mura contro una parete che offriva una facile possibilità di attacco ed andarono allo scontro; ma gli assediati incendiarono quelle macchine da guerra e Annibale decise di attaccare la città da altre parti.
Si diffuse una epidemia mortale nel campo cartaginese e la superstizione ebbe la meglio: i soldati pensarono che i morti si fossero vendicati per la profanazione delle loro tombe. L'assedio fu comunque continuato. Gli agrigentini erano difesi da un corpo di mercenari sotto il comando del lacedemone Desippo, ma chiesero aiuto anche alle città siciliane.
I siracusani mandarono Dafneo in aiuto di Akragas con un esercito di oltre 30 mila fanti e 5 mila cavalli, a cui si unirono i rinforzi di Messana (oggi Messina) e di altre città alleate.
Imilcone, intanto, saputo che le milizie Siracusane si avvicinavano, decise di ritirarsi. L'esercito alleato si unì agli Agrigentini.
Dessippo, duce degli Agrigentini, si oppose all’idea di tentare una improvvisa sortita per attaccare i Cartaginesi e stringerli tra due fuochi, cosa che avrebbe sicuramente prodotto la completa disfatta dei nemici e forse la liberazione di Akragas. Il popolo chiedeva di agire immediatamente e accusò i capi di corruzione e di tradimento.
Quattro capitani dell’esercito agrigentino furono lapidati dalla furia popolare. Dessippo, capo supremo dell’esercito agrigentino, fu accusato di tradimento, ma, nonostante ciò, non gli venne tolto il comando e la direzione della guerra, forse per la impossibilità di sostituirlo prontamente e per non precludersi, privandosi di un capo tanto esperto, la speranza di una futura vittoria.
Il condottiero siracusano Dafneo spiava e sorvegliava i movimenti dei punici e catturava quei nemici che lasciavano l’accampamento in cerca di viveri e quanti sorprendeva lontani dal loro campo venivano eliminati.
Egli in tal modo strinse ed affamò i Cartaginesi, i quali, non sopportando quella situazione, cominciarono tumultuare contro i loro comandanti poiché già parecchi soldati eran morti di fame; molti minacciavano di disertare.
Imilcone assicurava che i viveri sarebbero arrivati presto. Egli aveva saputo che da Siracusa eran partite, dirette ad Agrigento, delle navi cariche di vettovaglie, per soccorre gli agrigentini assediati.
La flotta siracusana venne attaccata si sorpresa da quella cartaginese e alla fine diverse navi dovettero consegnare il carico, destinato agli akragantini, ai punici. In tal modo furono invertite le parti: agli Akragantini mancarono i viveri, mentre ai cartaginesi abbondarono.
I Campani poi, alleati degli Akragantini, disperando nella vittoria, cedettero facilmente alla corruzione dei Cartaginesi e passarono al campo nemico. Pare che anche Dessippo sia stato corrotto dall'oro, poiché sollecitò gli Akragantini ad abbandonare la città, prima che che Cartaginesi tornassero ad assediarla e, presa per fame la città, massacrassero tutti.
Egli stesso fu il primo ad uscire coi suoi soldati e a fuggire. Gli assediati fecero un ultimo tentativo, cercando di trasportare in città i viveri ch'erano fuori le mura, nei campi attorno. Ma presto si resero conto che le provvigioni raccolte non sarebbero bastate che per pochi giorni, per cui, addolorati, molti decisero di abbandonare le loro case e allontanarsi al più presto.
Non è possibile immaginare, narra Diodoro Siculo, il dolore che provarono: uomini, donne, e fanciulli si disposero, piangendo, a partire dalla gloriosa Akragas, dalla più bella città dei mortali, come la definì Pindaro. Si avviarono verso Gela. Restarono in città gl'infermi, i vecchi e coloro che preferirono di rimanere, pur temendo per la loro sorte. Molti altri si uccisero per non cadere nelle mani dei nemici.
Fuori dalla città, la popolazione fu scortata dai soldati siracusani armati di Dafneo e giunsero a Gela, ma, poiché la città non li poteva contener tutti, parte dei profughi si rifugiò nelle città vicine.
Pur in tali condizioni di precarietà, ovunque si trovassero gli Agrigentini continuarono a conservare le loro tradizioni e la memoria della loro grandezza. Così nell'anno 406 a. C. - nei primi di dicembre - dopo otto mesi di assedio, cadeva Akragas in mano dei Cartaginesi. Questi, trucidati coloro che vi erano rimasti, saccheggiarono la città.
I cartaginesi svernarono nella città occupata, ma, venuta la primavera, vi appiccarono il fuoco, e non solo le case, ma anche i templi furono dati alle fiamme, affinchè della città non restasse che un cumulo di fumanti rovine.
Si racconta che morì, durante quel saccheggio, il benefattore agrigentino Gellia. Il tempio Giunone, nella Valle dei Templi di Akragas, custodiva un magnifico capolavoro d’arte: il famoso quadro di Giunone, del grande artista Zeusi, che per realizzarlo s’ispirò alle bellezze di cinque vergini akragantine.
Gellia temendo che il quadro di Zeusi potesse finire in mano Cartaginesi, appiccò il fuoco al tempio e si buttò in mezzo alle fiamme portando con sé il quadro.
Finalmente il corinzio Timoleonte, approdato in Sicilia nel 345 a.C. per liberare le città greche dal dominio cartaginese, ripopolò la città di Akragas nel 338 a.C., dandole sicurezza non solo, ma una pace, che pareva tale da farle dimenticare le passate sciagure.
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