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Il cornetto di notte, poi Ballarò: la movida di Palermo nei ricordi degli universitari fuori sede

Finiva sempre così, la nostra lunga notte tra i vicoli del centro storico dopo le lezioni universitarie o gli esami appena sostenuti. Finiva sempre così, ad attendere l'alba

  • 15 ottobre 2020

Il chiosco del cornetto del tribunale a Palermo

Finiva sempre così, la lunga notte gialla tra i vicoli del centro storico di Palermo: a sporcarsi guance, mani e maglietta di zucchero a velo e crema che – abbondante – al primo morso dato al cornetto, scappava via in gocce pesanti e dolci.

Finiva sempre così, la nostra lunga notte dopo le lezioni universitarie o gli esami appena sostenuti. Finiva sempre così, ad attendere l'alba – che ormai era più che inoltrata – al Tribunale, assaggiando la pasta calda di un cornetto appena sfornato.

Poi si andava a casa: magari l'indomani la lezione sarebbe stata a mezzogiorno, o magari era anche alle otto del mattino. Ma chi se ne importava? La spensieratezza e un caffè facevano da traino a quella giornata che sarebbe iniziata con nemmeno due ore di sonno.

Finiva sempre così, e iniziava magari dopo una “pizza a mensa”, al Santi Romano, nel viale delle Scienze. Pizza, patatine e coca cola, e poi via per le stradine del centro storico.
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Prima tappa a Ballarò, non molto lontana dalla cittadella universitaria. Prima tappa in quel mercato storico che la notte indossava un altro volto. Prima tappa laddove le poche panchine disponibili dei locali venivano affiancate da cassette di birra Forst che – per l'occasione – erano sedie ed erano tavoli. Una schiera di cassette verdi, poggiate in orizzontale o in verticale, e quelle in più erano accatastate lì in fondo, all'angolo della strada.

Si raggiungeva la zona dei locali passando per le strette vie del quartiere, sotto lenzuola appena stese ad asciugare e che portavano ancora addosso l'odore del detersivo, tra le bancarelle coperte da tendoni e adesso sigillate, tra porte schiuse da cui si sentivano le voci dei bambini, del tg della sera, del genitore che richiamava i figli – presi a giocare a calcio tra i vicoli – a casa, per la cena.

Si passavano lì le prime ore della sera, a sorseggiare una Bomba (no, non ricordo, adesso, dopo dieci anni, come fosse fatta), ad attendere altri amici (colleghi di città o “paesani”), ad attendere quel ragazzo che piace tanto: “Sicuramente passerà da qui, o magari lo becco dopo.

E il dopo era Vucciria.

Era la discesa di balate ancora bagnate dal mercato che aveva chiuso poche ore prima. Era attraversare via Roma, le sue vetrine dei negozi dai neon colorati, e inoltrarsi in altre stradine, in altre vite, in altri sapori. Come quello dello Zibibbo e del Sangue, da sorseggiare davanti il locale dagli interni azzurri: la Taverna Azzurra.

L'azzurro delle pareti, il bianco delle luci interne che si incontravano in un contrasto perfetto con il giallo soffuso delle luci della strada, tra il brusio della gente e il sottofondo di musica – sempre quella playlist su cui si cantava, dopo un paio di bicchieri in più, e si ballava.

Terza tappa ai Chiavettieri.

Era già tardi, era quasi mezzanotte, o mezzanotte già passata. “Non la prendi un'altra pizza? Questa, è piccola, appena sfornata e ancora calda”. La pizzetta dei Chiavettieri, quanto costava? Un euro? Un euro e cinquanta? Comunque si fosse vestiti, da qualunque posto si stesse arrivando, da qualsiasi cena ci si fosse appena alzati, si comprava. Si mangiava. Si assaporava passeggiando verso Piazza Marina, attraversando altre schiere di locali, tavoli e sedie da cui qualcuno – sempre – alzava la mano con un gesto di saluto. Ci si incontrava sempre, ovunque.

E dopo? Piazza Magione o Piazza Sant'Anna: la scelta era relativa al momento.

Dov'era il Drunks? Se era inverno e il Drunks era in piazza Sant'Anna, e lì che si passava. Ci si sedeva sugli alti sgabelli di legno e si inveiva contro quell'auto che per forza voleva passare da lì e tagliare in due la folla.

Si andava lì anche se c'era qualche concerto in piazza, alle volte organizzato dal Blow Up. Si andava alla Magione, a distendersi sul prato e a contare le stelle, se si era già nella bella stagione.

Oppure se era lì, in quel periodo, il Drunks.
Si andava lì anche nelle serate in cui giocolieri regalavano spettacoli che tenevano con il naso all'insù: vortici di fuoco nell'aria, bolle di sapone che si alzavano sempre di più, e la musica di un violino o di una chitarra che si disperdeva tra gli alberi e le chiacchiere di chi – seduto su quell'erba – cercava un po' di frescura.

Una scappatoia da quelle case per studenti senza aria condizionata, ovviamente, e spesso troppo aride. Verso quelle case, spesso malconce e arredate alla buona, si tornava dopo questo notturno camminare lungo tutto il centro storico della città.

Ma era ormai l'alba. Sarebbe stato bello andarla ad ammirare da Mondello, dalla spiaggia. Chi aveva la fortuna di beccare un passaggio (in genere dal collega di città) poteva ammirare il nascere della nuova giornata da lì, con i piedi tra i granelli di sabbia.

Ma per i più, l'alba si assaggiava lì, al Tribunale, dove la serata finiva. Dove, stanchi dal lungo camminare a piedi e dal sonno che – inevitabilmente – iniziava a bussare, ci si sedeva intorno a un tavolo di plastica, all'aperto.

Il freddo, quello, non lo sentivamo. Mai.
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