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Ha 19 anni e intreccia "cannistri e panari": un'arte a rischio estinzione sulle Madonie

Un'antica arte che risale ai tempi in cui prendeva dalla natura tutto quello che serviva. A tenerla in vita oggi c'è un giovanissimo artigiano madonita

Giovanna Gebbia
Esperta di turismo relazionale
  • 9 agosto 2024

Emanuele Pollara

Un'antica arte che risale a tempi lontanissimi che prendeva dalla natura tutto quello che serviva: la canna, il salice, la palma nana, l’olmo e l’ulivo selvatico dello "agliastro".

Con queste specie vegetali di cui la Sicilia abbonda e poche altre i contadini e i pastori realizzavano cufini, cannistri, panari e carteddi, alcuni dei nomi con i quali si chiamano i diversi canestri usati come contenitore nella quotidianità della cultura rurale - e anche in quella marinara - e che oggi sono oggetti di artigianato e in qualche caso di arredamento molto ricercati.

Sono il retaggio e il patrimonio di una cultura ancora presente ma, purtroppo, in mano a pochissimi ultimi custodi e non sempre giovanissimi, a rischio di estinzione.

Esclusivamente fatti a mano e spesso nei momenti di riposo, durante le giornate di lavoro, oppure d'inverno quando si stava in casa la sera in famiglia, la confezione era differente per l'uso che se ne doveva fare così come la grandezza, modelli tramandati tra generazioni.
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Tra i diversi tipi ognuno aveva il suo uso ben preciso: i cufini erano sempre di grandi dimensioni, alti fino ad un metro e mezzo, ed erano costruiti di canna e salice intrecciati; una tipologia più piccola era usata per conservare il pane, le cartedde erano di proporzioni relativamente più piccole con il fondo e i manici.

I panari piccoli erano fatti di canna, agliastro e salice, di grandezza differenziata a seconda della destinazione, così quelli usati per il trasporto del pesce avevano il fondo molto piatto e un manico alto, al contrario quelli e profondi erano destinati in proporzione alla raccolta della frutta come l’uva per la vendemmia.

Sulle Madonie abbiamo incontrato il giovanissimo artigiano grazie al quale ancora si può ammirare l’arte dell’intreccio.

Per passione e per amore, amore per la sua terra, passione per custodire un patrimonio: stiamo parlando di Emanuele Pollara di Isnello, piccolo borgo madonita conosciuto per il suo “cielo stellato” dove rimane il polo astronomico del Gal Hassin.

Giovanissimo di appena 19 anni, lo sguardo vivo ed energico di chi ha tutta la vita da vivere, un sorriso semplice e simpatico, è un esempio rarissimo di questo mestiere che ha raccolto dallo zio Ciano - ormai scomparso da qualche anno - che vedeva lavorare, restando affascinato come in un incanto dal lavoro delle sue mani.

"Ho iniziato così, guardando mio zio mentre lavorava imparando da lui quando ero piccolo, avevo 8 anni e da allora non ho più smesso di imparare fino alla sua scomparsa. In quel momento ho deciso di continuare la sua arte per non fare dimenticare la sua memoria, ma anche per non far perdere al mio paese questo patrimonio”.

Durante l’anno Emanuele si dedica ai lavori rurali.

È questo il suo mestiere subito dopo la fine degli studi, nelle sue radici ha trovato tutte le motivazioni per non andarsene e nel lavoro dei cannistri la passione che anima il suo amore per la terra, per il suo territorio, li dentro una stanza di casa che in dialetto si chiama “malaseno” dove ha tutti i suoi lavori e gli strumenti per lavorare due in tutto: una forbice per potare e il coltellino, quello tipico che i contadini usavano per fare un po’ tutto, dal taglio del formaggio e del pane per mangiare a raccogliere frutta, tagliare corde e cose varie…fare cannistri.

Lui va oltre, racconta di un'anima, di una empatia che si stabilisce tra sé e i materiali vegetali che lavora, come se diventassero una sola cosa, un tutt’uno che si muove all’unisono.

"Quando lavoro non sono io a decidere tutto, ma seguo il materiale che uso - spiega -, è lui che mi parla che mi dice come devo muoverlo, il verso e la direzione, le mie mani lo accompagnano e lo ammaestrano nella forma che prende vita a poco a poco a poco e viene fuori da questa unione tra uomo e natura”.

È un lavoro di pazienza oltre che di passione, quasi ipnotico, che fa distaccare dalla realtà e porta in un’altra dimensione nella quale ci si estranea da tutto, un’azione benefica per rilassar la mente, rigenerare lo spirito nella lentezza.

La fase del lavoro però ha bisogno di una parte preliminare senza la quale non si potrebbe realizzare nulla, quella della raccolta che ha a che fare con le stagioni, la natura delle specie vegetali e la luna.

Già proprio la luna, crescente o calante, in agricoltura è fondamentale conoscer le fasi per i lavori rurali, per la semina come per la raccolta o per le potature.

"A gennaio si raccoglie la canna che io prendo sulle rive del fiume che passa per il mio paese “Isnello”, l’Hassin - spiega Emanuele -, che è meno resinosa e la si conserva ad asciugare, mentre da novembre a febbraio si raccoglie il salice, l’ulivo dopo che finisce la raccolta e inizia la potatura che in dialetto si chiama “spicchiatura”. Ma sempre con la luna calante perché se lo si fa con la crescente si fanno i tarli che rovinano i legni".

Il commercio dei cesti veniva praticato in genere nelle fiere agricole paesane e dai cestari che portavano i loro pezzi fatti durante tutto l'anno, quando si diffusero le fiere agricole e del bestiame, diventando anche una fonte economica di guadagno per gli stessi contadini.

In effetti abbiamo incontrato Emanuele molte volte durante manifestazioni e fiere, sagre ed eventi sul territorio dedicati all’agricoltura o alle feste dei paesi dedicate ai prodotti tipici dove c’è sempre l’artigianato, ma ogni volta non è mai stato lui ad andare, chiamato da chi organizza proprio come attrazione, quella suggestione che si attua nei confronti di chi custodisce antichi saperi, tramanda la memoria.
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