AMARCORD
Gli "scafazzati" del sabato pomeriggio a Palermo: (noi) ragazzi a piedi in attesa del bus
Un viaggio spesso travagliato dove il più delle volte la paura di perdere il bus lasciava spazio ad una ondata di adrenalina appagante una volta arrivati alla meta
Un bus dell'Amat a Palermo
«Vedo lontano un mezzo con un dettaglio arancione, più alto e largo rispetto agli altri veicoli per strada. Se la mia mente non sta inscenando un miraggio deve trattarsi proprio di un autobus. E forse riesco anche a riconoscere le cifre da questa distanza».
Passa qualche secondo ed io ancora speranzosa con gli occhi incollati a quell'orizzonte. «Si, è proprio un autobus, ma non è il numero che mi interessa. Però almeno so che non c'è alcuno sciopero». I dubbi sull'esito di quella che sembrava ogni volta il viaggio della speranza zampillavano nella mia testa uno dopo l'altro, eppure ogni santissimo sabato pomeriggio ne incontravo altri di coraggiosi alle fermate.
Eravamo noi: i ragazzi a piedi. Noi che volevamo staccare la spina dopo una settimana passata tra i banchi di scuola, noi oltre le mura di casa che oltrepassiamo le bussole degli autobus come avventurieri che varcano portali misteriosi e dove tutto è una grande incognita: non sappiamo quanto attenderemo e non sappiamo quando arriveremo a destinazione, non sappiamo chi incontreremo, non sappiamo a che ora torneremo a casa, non sappiamo quante volte ci chiamerà nostra madre.
Trovare il proprio posto nel bus era un vero e proprio rituale, la ricerca della pace interiore: quel che ci si augurava al suo interno era avere la fortuna dalla propria parte e che facesse in modo che il nostro mp4 fosse carico abbastanza anche per il ritorno, che attorno ci fossero persone altrettanto asociali, che il bus non stesse tardando, che il meteo fosse favorevole e poco variabile, che la piega o lo smalto nero sulle unghie durassero il più possibile.
«Nessuno mi dirà una parola se ho lo sguardo rivolto al finestrino e con gli auricolari». Ebbene sì, eravamo già poco socievoli anche senza scorrere le bacheche dei social in mezzo alla folla. La fauna palermitana andava differenziandosi da un bus all'altro e forse potrei indovinare le linee anche solo grazie agli individui che vi sono dentro.
La prima specie di questo piccolo grande mondo che è Palermo e che, purtroppo, è più che presente, è quella dei bulli. O almeno è questo ciò che il mio diario di viaggio mi ricorda. Oggi si parla di baby-gang, ma noi palermitani possediamo un vocabolario più variopinto, ed ecco perchè preferiamo parlare di scafazzati o malacarne.
Se questi sono troppo "presenti" l'unica cosa da fare per non rovinarsi il pomeriggio è scendere (sì, e comportarsi da degni fifoni) e aspettare un altro bus; oppure scaricare quegli attimi di terrore e farsi una bella camminata. La stessa cosa potreste fare se doveste incontrare proprio quella persona poco gradita che interrompe nella parte più bella il pezzo che state ascoltando in quell'istante.
All'aprirsi delle bussole cigolanti, i nostri pensieri erano giunti a destinazione prima di noi che assaporavamo l'aria di chi "ha preso la via di fuori". E quelle destinazioni, nonché due grandi fazioni, erano "Piazza Skate" e/o il Tempietto. Eravamo noi: gli spasciati, i metallari, i fighetti, i darkettoni, i rappusi, gli emo, i truzzi, gli skater e gli onnipresenti scafazzati e scafazzate.
Un perfetto ecosistema regnato da specie che hanno trovato il proprio posto come pedine in una scacchiera. Anche se ad accoglierci all'esterno era il pacchetto completo di pioggia e vento, con annessa garanzia di ombrelli rotti e parolacce, forse nemmeno ci si rattristava troppo o almeno non per molto: perchè dopotutto, alla fine di quella tempesta, l'odore della pioggia sull'asfalto ci avrebbe allietati; così come il continuo calpestare le foglie bagnate, secche e ingiallite sparse lungo via Libertà o l'accostare al suono della pioggerella restante quello delle pagine dei libri della Feltrinelli.
Nessuna intemperia sarebbe stato un impedimento e il nostro meteo non era altro che una temeraria alzata di occhi al cielo. Ma esattamente, cosa combinavamo ogni sabato pomeriggio? Cosa faceva in modo che non ci annoiassimo mai di ripetere le stesse cose? Il Sundae al caramello del McDonald, prima di tutto. Ed anche se non ho ancora capito come si pronuncia correttamente, per me rappresentava il brindisi finale alla spensieratezza, il coronamento di un sabato pomeriggio sempre uguale ai precedenti ed ai futuri.
Stesso percorso, stesse destinazioni, stessi dialoghi, emozioni sempre diverse. Si assaporava l'odore della nube delle castagne per strada, si assaporava il primo sole rovente e le prime giornate fredde. Piazza Croci, via Libertà, piazza Politeama, la Feltrinelli, il Teatro Massimo e il giro per i negozi si faceva più suggestivo quando le giornate si accorciavano ed alle 17.00 le luci si riversavano sulle strade.
E poi di nuovo tutto al contrario fino al Giardino Inglese. Ad ognuno il proprio tour. Il mio si concludeva sempre con un pizzico di amarezza ma sempre col pensiero al sabato successivo. Poi mentre ammiravo alla fermata del bus le spille acquistate da Miele, ricevo la telefonata che tra tutte mette più ansia, ci afferra e ci butta giù dalla nuvola della serenità incontaminata: era la mamma con l'ennesimo "non fare tardi, sbrigati!". Se solo ci avesse pensato mi avrebbe chiesto di farla parlare con l'autista del bus per fare la medesima raccomandazione.
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