CURIOSITÀ
Gli "attaruni di Sicilia": com'era essere un precario ai tempi dei Florio e del Gattopardo
Tra nobili e poveri disgraziati però c’era una cerniera, una piccola fetta di fortunati, che in fin dei conti se la passava bene i domestici: quello era il posto fisso di oggi
A virità, quante volte avete sognato di poter tornare indietro nel tempo fino a quei nostalgici giorni immaginandovi come gran signori tutti imbellettati, infiocchettati e pieni di piccioli.
Ecco, io non vorrei deludervi, ma se la scienza non esclude totalmente la possibilità di viaggiare nel tempo, contrariamente invece non esiste alcuna teoria scientifica secondo cui tornare indietro nel tempo vi renderebbe più ricchi o più signori di come siete allo stato attuale.
E datosi che la forma di vita più diffusa del III millennio è il "precario" - libri e serie televisive a parte - la domanda sorge spontanea: come sarebbe stata veramente la vita di un precario al tempo dei Leoni di Sicilia? O meglio, come sarebbe stata la vita di uno normale, di un "Attarùni" di Sicilia?
E non era manco oro tutto quello che luccicava, perché buona parte di questi nobili aveva patrimoni dilaniati dallo sfarzo compulsivo, tant’è che gli usurai gli andavano a cantare "affacciati alla finestra amore mio" sotto casa.
Tolti i lor signori, tutto il resto della popolazione, quelli come la maggior parte, si leccavano pressoché la sarda. Tra nobili e poveri disgraziati però c’era una cerniera, una piccola fetta di fortunati, che in fin dei conti se la passava bene: i domestici.
Eh già, perché se i poveri facevano i poveri e i ricchi facevano i ricchi, i poveri che lavoravano dai ricchi venivano ben pagati (mediamente ogni 15 giorni), ma al contrario dei ricchi non tenevano debiti (o ne tenevano di meno).
In definitiva era il posto fisso di oggi, il famoso posto alla Regione per la serie "lavora alla Regione e non lavorerai mai un giorno in vita tua", che ti sistemava a vita.
Solo a Palermo si contavano più di 6000 domestici. Le campane invece si rompevano appena si andavano a conteggiare i disoccupati. All’indomani dell’Unità d’Italia vennero registrati più di 25.000 disoccupati, senza contare i non pervenuti che dovevano essere almeno il doppio.
E se nei palazzi di questi gran pezzi di lord, Burt Lancaster e Michele Riondino abbordavano come i pazzi ballando a ritmo di valzer, le case dei poveri di contro facevano un po’ cagher. Infatti i più poveri vivevano in veri e propri cacatoi chiamati catoi, ovvero delle bettole striminzite con una sola stanza dove si mangiava, si passava il tempo e si dormiva tutti assieme appassionatamente.
Poi appena spuntava il sole il capofamiglia, ovviamente la donna, buttava tutti fuori: il marito a fare finta di cercarsi il lavoro, i figli a fare danno per strada. Quello che non mancava mai nei catoi era la santina di santa Rosalia e il poster di Garibaldi.
Nonostante il poster dell’uomo che detiene il Guiness Word Record per aver dormito in tutte le case d’Italia, tra i siciliani aleggiava tuttavia il dubbio che se da un lato questa unificazione dello Stivale avrebbe portato cose buone, dall’altro faceva già puzza di prendersela intercooler… soprattutto per loro che erano poveri.
Questo dubbio durò giusto da Natale a Santo Stefano, perché in quattro e quattr’otto venne reimmessa la leva obbligatoria (da cui i siciliani erano esenti), fu ripristinata la tassa sul macinato, aumentarono le tasse che già c’erano e ne introdussero di nuove.
Ciliegina sulla torta si pensò di sopprimere le corporazioni religiose, che tra le altre cose si occupavano di assistenza ai poveri. Su questo però Garibaldi non ebbe responsabilità, ma ci colpò Vittorino Emanuelino Secondino.
Pensate come ce le aveva girate la gente, è come se dopo la nostra pandemia fossero state tolte le misure di assistenza per i bisognosi e contemporaneamente i nostri politici della Regione o del Comune avessero avuto la bella pensata di raddoppiarsi gli stipendi, così, da un giorno all’altro.
Cioè, cose dei Puffi va’!
Comunque, in tutto questo: carestie ad anni alterni, crisi del pane, ammazzatine per le strade e i pidocchi giravano per la città tipo turisti, tanto è vero che nei bordelli a quei tempi andavano di gran moda le parrucche pubiche (cercate Merkins se siete curiosi) usate dalle prostitute proprio per evitare di riempirsi di pidocchi lì o per nascondere la sifilide.
E già che abbiamo aperto la rubrica di Medicina 33, metteteci anche il colera che si veniva a fare volentieri le vacanze in Sicilia e che negli anni 1854-1855 aveva causato solo nell’isola 43.000 morti. Il tasso di analfabetismo poi era altissimo tra la popolazione: la gente era così analfabeta che non sapeva nemmeno cosa fosse un tasso di analfabetismo.
Questo ovviamente peggiorava la situazione e bastava che qualcuno dicesse a un amico: “tua moglie, Anna, è palindroma” e finiva subito a coltellate. Il 10 dicembre 1861 Francesco Crispi denuncia in Parlamento che nella sola Palermo si sono verificati 200 aggressioni in un anno finite col sangue… tutti palindromi.
Gli unici che sembravano non avere problemi a trovare impiego erano i bambini… Già, nelle zolfare. Questo perché erano piccoli, riuscivano a percorrere i cunicoli più stretti delle miniere, venivano pagati di meno e producevano più di un adulto.
Detta così fa un po’ incazzare, ma vi assicuro che era più una cosa tipo “Umpa Lumpa” ne La fabbrica di cioccolato. Ovviamente le zolfare facevano bisisinìssi ai ricchi signori; Ignazio Florio già nel 1839 ne aveva in affitto 46 sparse un po’ gua un po’ là. Sembra un’utopia perché questa è l’era dei bamboccioni, ma in quegli anni grazie alle zolfare la disoccupazione minorile era pari a zero.
Le cose andarono così bene che l’anno appresso, il Florio si mise in società con Beniamino Ingham e l’industriale francese di nome Porry, che però non si occupava di porri ma di acido solforico.
Gli affari con l’acido solforico andarono così a gonfie vele che in breve il leone di Sicilia decise di rilevare totalmente quella fabbrica ai piedi del Monte Pellegrino, che oramai era diventata “Chimica Arenella”.
Purtroppo però nel 1870 qualcuno si mise in testa che lo zolfo e l’acido non facevano tanto bene ai polmoni dei bambini e degli operai. Per questo motivo introdusse nuove norme per la tutela del lavoro minorile.
Per fortuna ci stava la Fonderia Oretea fondata nel 1841 (quasi subito trasferita nei pressi dell’attuale via Mariano Stabile). È proprio la fonderia che fornirà una gru di 25 metri per la costruzione del Teatro Massimo e realizzerà la tettoia ferrea del Politeama.
Eh, ma ahimè, seppur facenti parti di una realtà più unica che rara per i tempi, i lavoratori birichini ogni tanto facevano i capricci. La colpa non era però dei Leoni, ma del mercato che faceva anche i capricci e obbligava a dover essere competitivi con le fabbriche del nord. E come essere competitivo se non abbassi i salari?
Ordunque, per evitare che qualche scontento combinasse la minchiata venivano perquisiti gli operai alla fine del turno di lavoro. Terminato il detto turno, siccome alle case si tornava a piedi, non era difficile trovare gli operari stanchi morti, stinnicchiati fuori dalla fonderia a riposare prima di intraprendere il cammino.
È giusto dire che nessun operaio di quel tempo era ben trattato come gli impiegati presso le aziende dei Florio, che fra l’altro intentarono diverse politiche sociali, come ad esempio paghe premio, scarico di lavoro per i più anziani e corsi serali per gli analfabeti (iniziativa rimasero pressoché infrequentata, ma il fatto è che da noi certe cose non pigliano proprio).
Ad ogni modo la zita questa era, e la conclusione è che se puoi scegliere se nascere povero o ricco, non fare minchiate, nasci ricco. In caso contrario, non ti preoccupare, manci u stissu.
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