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Gli anni del "sacco edilizio" a Palermo: la città oggi sarebbe la capitale dell'Art Noveau

La demolizione di ville, palazzi e villini per lo più Eclettici e Liberty non avvenne quasi mai al di fuori del perimetro normativo vigente all’epoca bensì al suo interno

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 20 maggio 2023

Villa Deliella

È abbastanza narrata la vicenda "divisiva" che trova protagonista l’aggressione al patrimonio architettonico durante il boom economico del secondo Novecento, dalla quale prese inizio la cementificazione integrale del territorio ex-agricolo della Conca d’Oro.

Quel che rimane altresì poco o parzialmente raccontato è il clima di quegli anni di totale fiducia nei riguardi di una idea alterata di progresso unito alle mancate contromisure che se si fossero organicamente poste in essere, avrebbero evitato il disastro o quantomeno limitato gli effetti.

La demolizione di ville, palazzi e villini per lo più Eclettici e Liberty non avvenne quasi mai al di fuori del perimetro normativo vigente all’epoca bensì al suo interno, magari accarezzandone il confine come nel caso della demolizione di Villa Deliella avvenuta un mese prima del compimento del cinquantesimo anno per l’apposizione del vincolo di tutela assoluta, ma sempre dentro un quadro di possibilità normate da leggi approvate dalla politica.
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Oggi a distanza critica corretta, forse già in ritardo, potrebbe persino apparire abbastanza sterile proseguire nella narrazione di sole accuse perpetrate in direzione di proprietari e costruttori, senza individuare il vero responsabile, quel soggetto cioè che preposto alla gestione e alla programmazione del destino del territorio, perse l’occasione o forse volle perderla favorendo così il prosperare di un modello di sviluppo edilizio che non lasciò scampo né alla bellezza del paesaggio né tanto meno a quella del costruito storicizzato.

Fu la politica con pochissime eccezioni a svolgere il ruolo determinate in quel ventennio di zona grigia in cui il sacco edilizio dilagò cambiando il volto della città floreale.

La politica orientò e controllò la redazione del Piano Regolatore Generale degli anni Cinquanta (approvato nel 1962), i cui dispositivi normativi nel rapporto tra aree disponibili e volumetrie da poter realizzare (indici di fabbricabilità) alterarono per sempre il sistema produttivo e gli equilibri tra qualità architettonica e quantità edilizia realizzata, calpestando secoli di tradizioni costruttive e retaggi culturali consolidati.

Il Liberty della Belle èpoque fu il bersaglio privilegiato dalla speculazione edilizia tra le vie Libertà e Notarbartolo, proprio perché l’espediente della mancata maturazione degli anni indispensabili per ottenere tutele normative non arrivò quasi mai in aiuto di villini e parchi di pertinenza, consentendo la demolizione e il conseguente cantiere edile in cui a parità di area, potevano adesso svilupparsi volumetrie decuplicate rispetto al piccolo villino a due piani appena cancellato.

Sarebbe bastato infatti che la politica su spinta chiara e concreta del mondo intellettuale, professionale e accademico, non alterasse tali indici mantenendo l’obbligo di realizzare equivalenti volumetrie rispetto a quelle della costruzione originaria dell’area e Palermo oggi sarebbe ancora una grande capitale Art Nouveau.

Fu questo il vero sacco edilizio, quello consentito dalla classe politica in possesso del solo potere decisionale e di controllo, e non solo quello certamente sfruttato ad arte da qualsiasi profilo speculativo motore di appetiti che trovarono concretezza grazie alle debolezze economiche di una borghesia in continua emergenza economica, o ancora quello dei silenzi di chi si arricchì professionalmente.

Tutte componenti concorrenti al delineare di un discorso più ampio, il quale però (e non sembri affatto una semplice sfumatura) senza l’indirizzo compiacente di una politica mai all’altezza della storia millenaria della città, non avrebbe mai potuto trovare concretezza né sviluppo di così ampio raggio.

A oltre mezzo secolo da quella stagione che ancora oggi produce disastri e rallentamenti allo sviluppo urbano, è indispensabile la nascita di una nuova consapevolezza diffusa in grado di andare oltre la malinconia del ricordo. Serve un museo che sappia raccontare i passaggi notevoli di quella stagione e non abbia timore di raccontare la grande bellezza che abbiamo perduto a causa dello Stato che non ha fatto lo Stato.

Urge che dalla divisione tra buoni e cattivi (comprensibile) si sappia giungere a quella pacificazione virtuosa in grado di alimentare nuovi percorsi narrativi e non più sterili lamentele né divisioni pedanti.

La sede naturale più prestigiosa e probabilmente iconica è ancora il Villino Messina-Verderame sopravvissuto all’Olocausto architettonico, di proprietà regionale, abbandonato come si abbandonano le cose vecchie in discarica, pronto dopo un necessario progetto di restauro a ricucire le fila di una storia brutta, difficile persino da raccontare ma indispensabile da tramandare, e proprio lì dove il piccone demolitore si scagliò senza esclusione di colpi con maggiore violenza iconoclasta.

Qui la storia potrà ancora raccontare "la storia", sedimentare memoria, costruire nuovo valore culturale ricordando a noi stessi che nulla come l’architettura riesce a costruire sedimento culturale, ricucire gli strappi, diventare città, disegnare speranza.
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