AMBIENTE
Fuoriuscirono 600 milioni di metri cubi di lava: la furia dell'Etna che cambiò il volto di Catania
Era il 1669. Si tratta sicuramente dell’eruzione storica più importante e più drammatica del Mongibello sotto molti punti di vista. Le bocche eruttive si aprirono a circa 800 metri di quota
L'eruzione dell'Etna del 1669 - quadro realistico di Giacinto Platania custodito nel duomo di Catania
Sono esempi della stratificazione storica il teatro greco di Catania, sepolto incredibilmente per secoli da abitazioni civili, le terme, sotto piazza Duomo, o ancora l’anfiteatro romano, visibile in parte sotto il livello della via Etnea, nei pressi di piazza Stesicoro. Nella città del Liotru a fare la differenza sono state le colate che l’anno raggiunta più volte dalla sua fondazione. L’ultima volta è accaduto nel 1669. Si tratta sicuramente dell’eruzione storica più importante e più drammatica del Mongibello sotto molti punti di vista.
Le bocche eruttive si aprirono a circa 800 metri di quota, dove oggi rimangono due coni di scorie detti dai contemporanei “Monti della ruina (rovina)”, oggi Monti Rossi. La lava nei quattro mesi di attività, dopo avere imboccato la discesa verso la pianura, si divise in vari rami che seminarono distruzione su tutti i fronti.
Il primo paese distrutto, con le borgate vicine, fu Malopasso, che venne ricostruito più a valle col nome di Belpasso. Venne seppellita dal passaggio del grande fiume di lava l’antica Misterbianco, anch’essa ricostruita più a valle, in un nuovo sito. Alle porte di Catania fu completamente coperto dalla lava il piccolo lago di Nicito, creato dallo sbarramento lavico di una precedente eruzione, a dimostrazione che la lava ha più volte cambiato la geografia del territorio catanese. Oggi il lago di Nicito sarebbe inglobato nel perimetro urbano, il sito in cui sorgeva è indicato dalla via omonima, ubicata tra piazza santa Maria del Gesù e via Plebiscito.
Poco più di un mese dopo l’inizio dell’attività eruttiva la lava si presentava alle porte della città. Bisogna provare a immaginare il dramma dei suoi abitanti che fino a quel momento avevano immaginato le mura per difendersi dagli assalti di possibili nemici con cui ci si poteva battere ad armi pari, non certo assediate da una forza soverchiante e incontrollabile. Eppure i fianchi di quelle mura furono l’unico possibile argine al fiume incandescente, le porte furono rinforzate con blocchi di pietra, la lava scivolò lungo il fianco della città dirigendosi verso il mare. Furono travolti lungo il suo percorso importanti testimonianze della città romana e cioè il Circo Massimo e la Naumachia, dove si simulavano le battaglie navali.
Anche se le mura furono la salvezza della città un tratto cedette alla forza della lava in prossimità del Monastero di san Nicolò l’Arena, attuale sede dell’Università. Alle sue spalle, è ancora visibile un tratto del fronte lavico. Il braccio dell’eruzione che costeggiava le mura raggiunse il Castello Ursino che fino a quel momento era ubicato lungo la costa a picco sul mare. Il maniero federiciano era stato voluto dall’imperatore svevo per difendere la città dagli assalti dei corsari. Il fossato si riempì di lava ma il castello fu risparmiato perché la colata si riversò direttamente sul mare prolungando la costa di circa un chilometro, ridisegnandone completamente il profilo per un lungo tratto che corrisponde all’attuale porto di Catania.
Trovandosi in visita al castello si potrà notare come una garitta sia sotto il livello della strada, un nonsense per quello che è il riparo di una sentinella, se non si sapesse che circa tre secoli e mezzo prima la sua posizione era di vedetta sullo Ionio. I rami della colata che penetrarono la città, oltre ad abitazioni civili e religiose, coprirono per sempre i canali che distribuivano le acque dell’Amenano, il fiume di Catania. In un itinerario del centro storico è possibile vederlo affiorare tra Piazza Duomo e la Pescheria nella fontana che i catanesi chiamano “acqua a linzolu (lenzuolo)”, nel proscenio del Teatro Greco, nel pozzo di Gammazita e nella cantina di un ostello, dove il fiume scorre all’interno di una grotta lavica mostrando i segni tangibili dell’eruzione.
A quattro mesi esatti dal giorno di inizio, l’11 luglio del 1669, dopo avere percorso 17 chilometri e avere eruttato circa 600 milioni di metri cubi di lava, la furia devastatrice dell’Etna si arrestò. Tra i contemporanei molti diedero il merito a Sant’Agata, colpiti dal fatto che, a 300 metri dai luoghi in cui la martire era stata imprigionata e martirizzata, l’eruzione si era bloccata. L’evento causò distruzione e anche miseria ma nemmeno una vittima, la città si rialzò molto presto e si rimise all’opera ignara che un altro catastrofico evento incombeva su di essa, il terremoto del Val di Noto che appena 24 anni dopo avrebbe raso al suolo Catania uccidendo circa due terzi dei suoi 20000 abitanti. Ma questa è un’altra storia.
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