ITINERARI E LUOGHI
Fu rifugio di personaggi illustri (e anche di fedifraghi): la sconosciuta Villa Valdina
È la più antica dimora nobiliare della zona bagherese e a farci da Cicerone è stato uno dei proprietari della Valdina, dei tre ceppi di eredi attuali, memoria storica di quel luogo
Mancanza mia per carità, non me ne vogliate! Uno di questi, che sta a meno di 10 minuti da casa mia, è Villa Valdina, a Santa Flavia. Villa Valdina è una delle residenze nobiliari di villeggiatura, costruita, o meglio, completata tra il XVII ed il XVIII secolo dai Papè, Principi di Valdina. Come avvenne per la vicina Villa San Marco, fu edificata, secoli più tardi, intorno all’originaria torre quattrocentesca, essenziale per la sua funzione di vedetta contro i pirati, e poi adattata a quella che sino ad un’epoca relativamente recente è stata la sua vocazione primaria, e cioè di azienda agricola.
L’abbondanza che non fa carestia insomma! Ancora oggi, il suo giardino ornamentale detto “floretta” nonostante la vastità, si distingue per quei viali rettilinei sovrastati da rampicanti, panche in pietra d’Aspra, e tutta una serie di piante, agrumi e fiori che sono da sempre stati il focus e l’attrattiva della proprietà. Non è un caso che tutti i saloni principali della villa fossero proiettati verso questo spazio, gelosamente custodito attraverso le mura di cinta e così precluso all’esterno.
L’intervento di impronta neoclassica, risalente al ‘700, le ha conferito l’attuale aspetto. Del passato rimane la torre con affreschi del ‘600 nel suo sottopassaggio, proprio nel centro della corte a ferro di cavallo, e una piccola cappella nel giardino intorno.
L’impianto che noi oggi vediamo, in linea con la tipica configurazione settecentesca, si sviluppa su due fronti, uno rivolto verso il baglio e l’altro sul giardino, da questa parte uno stemma in stucco, un tantino sproporzionato, sventola l’orgoglio per il casato che ha voluto la nobile dimora. La villa appare però differente rispetto a quelle molto conosciute dei principi di Palagonia, Valguarnera o Butera, più “modesta” e adatta più che al soggiorno delle famiglie principesche, alla breve permanenza dei signori del luogo.
Connotazione rimasta costante da prima dei Papè e fino ad un’epoca relativamente recente è quella di azienda agricola che vi dicevo prima. Vigneti, olivi e successivamente agrumeti che si estendono tutti intorno alla proprietà che a differenza delle altre sopracitate nella “città delle ville” conserva inalterata la sua estensione e per questo anche la sua atmosfera. Villa Valdina si trova al centro non del feudo di Giampilieri, come molti sostengono, bensì del “locu”, il terreno insomma, dei Valdina divenuti “di Giampilieri” con uno di quei matrimoni nobiliari combinati come era uso all’epoca.
Si tratta di una smisurata pianura ma di dimensioni comunque ben inferiori a quelle di un feudo, dove la terra è stata da sempre dedita al pascolo, ai vigneti e alle semine. La villa sorge nella piana di Solanto, circondata da un grande terreno agricolo che trova ai suoi estremi dal lato del mare, il Castello, e dal lato del monte, l’antica via Consolare de Spuches.
Quasi sicuramente Villa Valdina va considerata come la più antica dimora nobiliare della zona bagherese, all’epoca della sua costruzione il territorio era presumibilmente un tutt’uno con Bagheria, e questo non lo dico per rivendicare possessi, sia chiaro! Anche oggi se ci pensate, una stessa strada è da una parte territorio bagherese e dall’altra flavese, Villa Spedalotto ne è uno degli esempi più celebri trovandosi a Santa Flavia, pur essendo di fronte a Villa Valguarnera, tutta baariota.
La peculiarità che più di tutte caratterizza e distingue Villa Valdina dalle altre nobili dimore della medesima epoca, sta nel trovarsi in un luogo decentrato, protetto oserei dire, che è anche la ragione per cui si è conservata in maniera più fedele alle sue origini, senza essere mordicchiata da tutte quelle costruzioni sorte invece selvaggiamente tutte intorno ad altre ville della zona.
Ciò ha preservato anche l’atmosfera magica e silenziosa del giardino e della proprietà tutta, nota sin dal passato più che per le sue architetture, per gli illustri ospiti che ha accolto. Alla Valdina infatti, come raccontava lo storico Agostino Gallo, fu ospitato niente meno che l’artista monrealese Pietro Novelli che, nel 1631, dovette fuggire dalla sua casa per quello che fu definito “un suo intrigo amoroso”, perchè “questione di corna” già all’epoca non suonava bene.
Certo è che tale problemino, se così vogliamo definirlo, non doveva essere proprio di poco conto dal momento che, dopo la fuga e l’isolamento a Santa Flavia lo portò a trasferirsi a Roma, pur di non tornarsene a Palermo... Pietro Novelli non fu il solo ospite di grande fama ricevuto alla Valdina, sia nel 1779 che l’anno successivo, fu infatti accolto anche Ferdinando III di Borbone per “venationis causa”, andare a caccia insomma, perchè anche in questo caso dire banalmente “per passarsi il tempo in vacanza” sembrava offensivo.
Va detto però che Pietro Novelli fu l’ospite che tutti vorremmo. Da me al massimo gli ospiti vengono con una pianta o con il vassoio di dolcini, lui invece, per sdebitarsi della permanenza che, probabilmente data la ragione di fondo poteva rappresentare anche un rischio per il padrone di casa, lasciò traccia del suo passaggio con affreschi sulla volta della torre, decorazioni all’interno del muro di cinta del giardino con le stazioni della Via Crucis, di cui si intravede ancora oggi appena qualche cenno,e della cappella, con affreschi sulla Natività.
Inevitabimente queste opere sono state quasi del tutto cancellate dal tempo, ma vi è un falso mito che bisogna sfatare a questo punto. È ormai radicata l’idea che alcuni degli affreschi della cappella siano stati trasferiti su tela negli anni Settanta così da poter “sopravvivere”... in realtà, due degli affreschi interni alla chiesa, ben prima degli anni ‘70 dello scorso secolo, sono stati vittima di un tentativo non maldestro ma comunque limitato a quelle che erano le conoscenze di più di un secolo fa, di asportazione. Come anticipato, il tentativo non è andato a buon fine e dall’epoca sono state sostituite da due “belle” colate di cemento.
Per il resto, ciò che oggi non è visibile è stato tristemente vittima dei secoli trascorsi. Chi ha avuto modo però di osservare queste opere quando erano ancora ben visibili e conosceva i lavori di Novelli, coglieva qui un tratto che va al di fuori della sua solennità consueta, in linea probabilmente con l’atmosfera che si respirava in casa Valdina e poi, molto probabilmente, con il “particolare” momento della vita del suo autore.
La vera delizia più delizia di tutta la proprietà è però la cappella della Natività, e non solo per gli ornamenti pittorici omaggiati da Novelli, ma ancor di più per la sua essenza che incarna perfettamente lo spirito barocco dell’epoca di costruzione. La facciata è infatti letteralmente impreziosita con un motivo decorativo tutto realizzato con conchiglie madreperlacee che riproducono motivi vegetali.
Questa preziosa tecnica era molto ricercata in epoca barocca e unica per le evanescenze generate dall’accostamento di conchiglie lucide, opache, concave e convesse, che davano vita ad un gioco di luci ed effetti che si è inevitabilmente perso a causa dell’esposizione alle intemperie. Unica davvero se pensate che proprio per la sua particolarità questa tecnica difficilmente veniva applicata su superfici più vaste di quella di una fontanella decorativa.
Ma come farà a sapere tutte queste cose che non si trovano sui libri e nemmeno nell’internet?! Ve lo state chiedendo, lo so... ogni tanto una botta di fortuna può capitare anche a me senza che nessuno si offenda! Qualche giorno fa sono andata a far una capatina alla villa, pronta ad usare voi lettori come scusa per poter varcare la “sacra” soglia di quel cancello con tanto di cartello “proprietà privata” che introduce ad un lungo viale che culmina con l’ingresso alla corte a ferro di cavallo e che anticipa l’antica torre, e invece... e invece non solo non sono dovuta tornare indietro ma sono stata anche bene accolta.
Per scavalcare mura di cinta non ho nè il fisico nè l’incoscienza mista a criminalità. Nonostante fossi certa che il mio pomeriggio piovoso che di primavera aveva molto poco si sarebbe concluso con un viaggio a vuoto, una disfatta insomma, a dispetto di quelle che potevano essere anche le mie più rosee aspettative, in questo caso direi sogni più che altro, non solo sono tornata a casa con le gambine integre perchè nessuno mi ha lanciato qualcosa contro, posso addirittura affermare, e senza poter essere smentita, di aver trascorso uno dei miei pomeriggi immersi nella natura più belli in assoluto.
E questo non per la presenza di piante allucinogene ma perchè ho incontrato uno dei proprietari della Valdina, dei tre ceppi di eredi attuali, che non solo ha accolto me e la mia compagnia, quattro sconosciuti che io di certo non avrei fatto entrare in casa mia sulla fiducia, con assoluta gentilezza, ma si è abbandonato con grande generosità al racconto della storia della sua famiglia, di quegli avi di cui ha sentito parlare sin da piccolo e ha condiviso con noi le sue informazioni e le sue curiosità soddisfatte dalle sue personali ricerche.
Ho avuto la gioia grande di confrontarmi con la memoria storica di quel luogo con cui visitare quei giardini e incamminarci lungo i viali che conducono ai terreni coltivati tutti intorno e da cui scorgere le vicine villa Sperlinga, villa Campofranco, villa Oliva e distese di verde a perdita d’occhio. Vi rendete conto che alla fine ci ha persino ringraziati per la compagnia? Vorrei provare a trovare le parole per descrivervi al meglio le sensazioni provate tra quei viali, dovrei saperlo fare, ma l’entusiasmo che ho ancora adesso mentre digito è tale che posso solo affidarmi alla descrizione di un altro illustre ospite della Valdina.
Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in visita con il padre ebbe a scriverne più tardi descrivendo il giardino come “abbandonato ma lindo”. Penso, a buon ragione, che l’idea di “abbandono” cui faceva riferimento non fosse da intendersi con un’accezione negativa, alludendo a trascuratezza, ma più che altro un vero e proprio sovraffollamento, passatemi il termine, di natura.
Sì perchè la famosa floretta sembra un boschetto fitto, pieno di alberi di varie dimensioni, piante di ogni genere tornate a vivere grazie agli acquazzoni dello scorso inverno e alla perseveranza del loro proprietario, rampicanti che vengono giù dall’alto e offrono una chiazza di verde che nutre la vista e l’anima di chi, come me, ha avuto la fortuna di trovarsi lì. E poi si sa, le cose inaspettate sono sempre le più belle, persino se non ti sei ancora ripreso da un attacco di allergia al polline dell’ulivo!
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