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Erano "nobili" e amatissimi: gli animaletti (viziati) della Belle Époque a Palermo

Il pappagallo di Effie Whitaker, le scimmiette di Donna Franca, i cani dei Piccolo, il merlo e il gatto del barone La Lomia. Tutti coccolati dai loro bizzarri padroni

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 10 novembre 2024

Tomasi di Lampedusa col cane Crab

Oggi c’è molta sensibilità nei confronti degli animali domestici, inseparabili compagni di vita, amati, curati, viziati e coccolati. Lo sappiamo: tra uomo e animale si riesce a instaurare un legame fortissimo. Dai nostri amici pelosetti ci sentiamo accettati e amati senza riserve, ecco perché a volte li preferiamo ai nostri simili.

L’addomesticamento di cani, gatti, cavalli però risale già a migliaia di anni fa. Il medico greco Ippocrate, aveva persino notato le potenzialità di quella che oggi chiamiamo "pet therapy" e consigliava una lunga cavalcata per combattere l’insonnia.

Nel Medioevo cani e gatti vivevano nelle famiglie perché venivano considerati utili, svolgevano un lavoro: stavano a guardia della casa o del bestiame i primi; cacciavano i topi i secondi.

Particolarmente fortunati erano gli animali domestici adottati dalle èlite, spesso immortalati sin dal Rinascimento nei ritratti ufficiali, insieme ai loro eleganti padroni: ricordiamo ad esempio il dipinto (oggi smarrito) di Dorotea e Barresi Santapau Branciforti, principessa di Pietraperzia e di Butera (1533-91) che accarezza il suo alano.
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Le attenzioni verso gli animali di casa non erano sempre ben viste dalla Chiesa: Alberto Magno condannava l’abitudine di nutrire i cani direttamente dal piatto e di coccolarli troppo, perché faceva perdere loro l’istinto di fare la guardia.

Vescovi e Cardinali rimarcavano che il cibo destinato agli animali era sprecato e che sarebbe stato meglio darlo a chi non ne aveva e moriva di fame; ma nei fatti era diffusa ovunque la compagnia di cani, gatti e volatili e anche i monaci e le monache li amavano, al pari dei laici.

Diciamoci la verità: vivere in una famiglia povera o in una famiglia ricca era ciò che faceva veramente la differenza per gli animaletti di casa, che nel secondo caso godevano dello status privilegiato dei loro padroni e spesso venivano trattati con tutti gli onori dalla servitù, come nel caso del vivace pappagallo di Euphrosine (1862- 1947) detta Effie, moglie di Joshua Whitaker.

Mrs Whitaker era un tipo bizzarro e tenendo alla sua fama di persona originale se ne andava in giro per Palermo con il pappagallo su una spalla, una tabacchiera col mangime dell’uccello e una palettina d’argento per raccogliere i suoi escrementi. Il pappagallo, dal brillante piumaggio rosso e verde, viaggiava insieme ad Effie sul vapore Palermo - Napoli e una volta fu visto appollaiato sulle sbarre del letto di Mrs. Whitaker che era ammalata.

Era stato ammaestrato a scoppiare in risate canzonatorie alle richieste esose dei mercanti, quando Effie entrava nei negozi, chiedendo i prezzi di mobili o di oggetti d’arte (che amava collezionare). Svolazzava in libertà tra i rami dei giardini all’inglese di Villa Sperlinga, nell’immenso parco di oltre 9000 metri quadrati acquistato nel 1886 da Joshua e sua moglie.

La signora Whitaker fu una grande appassionata e pioniera in Sicilia del gioco del tennis e a Sperlinga aveva due grandi campi e un giardino segreto, nascosto da una fitta siepe, a cui si accedeva attraverso un cancelletto di solito chiuso a chiave.

Il povero pennuto morì - scriveva Tina Scalia Whitaker, cognata di Effie, nel suo diario - abbattuto dal giovane Vincenzo Florio. A proposito dei Florio: Donna Franca Florio possedeva nella sua casa di Palermo all’Olivuzza due scimmiette, due cercopitechi chiamati Fitty e Fufi, animaletti viziati e molto dispettosi, che venivano serviti da camerieri in livrea.

La Contessa Michelina Arezzo di Celano, che viveva nel palazzo dei Principi di Torrebruna, confinante con Casa Florio, appuntava nel suo diario che in un giorno di primavera, cercando di imparare a fumare, le scimmiette finirono per dare fuoco alla stanza da letto della Signora Florio, incendiando anche la celebre tenda di pizzo e merletto, vanto della casa.

Vi fu un incessante via vai di servitù, nel tentativo di spegnere le fiamme e di recuperare tutti gli oggetti che le scimmie, terrorizzate dal fumo, avevano trasportato e appeso ai rami di un grande ficus magnolia del giardino.

Un cameriere, Peppino Cavalieri, riuscì a recuperare un elegante abito, in parte strappato ma Donna Franca rifiutò di riprenderselo, affermando: “Non potrei mai indossare abiti che hanno ripulito le foglie di un albero”.

L’abito molti anni dopo finì nella Collezione Gabriele Arezzo di Trifiletti e oggi è esposto al Museo del Costume, nel castello di Donna Fugata. Amica – nemica di Donna Franca era proprio Tina, che aveva sposato Joseph Whitaker detto Pip: ornitologo di fama internazionale, studioso di botanica, archeologo.

Pip raccolse una corposa collezione di oltre 12.000 uccelli nella dependance della villa a Malfitano (via Dante). Aveva aderito all'unione degli ornitologi britannici e svolse campagne di ricerca e studio, prendendo parte a spedizioni in Tunisia per circa dieci anni, dal 1894 al 1904.

Alla morte di Joseph, dopo anni di trattative andate in fumo, la grande collezione di uccelli Whitaker fu smembrata e donata (tra il 1956 e il 1968) dalla figlia Delia a diversi enti europei.

In Sicilia, però, rimangono ancora oggi una ventina circa di esemplari. I Pips, come venivano chiamati Tina e suo marito, da buoni inglesi amavano molto la compagnia dei cani e in un angolo del giardino di piante rare della villa ancora oggi si può ammirare la sepoltura di Tuffy-too, adorato cagnolino di famiglia.

Il ritratto del simpatico piccoletto, eseguito dalla pittrice giapponese O’Tama Ragusa, è esposto all’interno della dimora storica. Sulla lapide in giardino è inciso in inglese: “Tuffy-too nato nel 1894 e morto il 22 Aprile 1909, un cagnolino per 15 anni compagno costante e fedele di Pip e Tina Whitaker molto afflitti”.

Un vero e proprio cimitero dei cani si trova nel giardino di Villa Piccolo a Capo d’Orlando. Si tratta di un luogo sicuramente molto particolare, che denota una grande sensibilità e che oggi è tutelato dalla Sovrintendenza dei beni culturali. Si riescono ancora a leggere i nomi degli animaletti sulle lapidi squadrate: Puch (il cane di Lucio), Flech, Alì, Emir, Pascià, Omar, Chichi, Malatedda… .

Ogni pelosetto, quando moriva, aveva la sua lapide e il suo corteo funebre. I fratelli Piccolo, Agata, Casimiro e Lucio, si ritirarono alla fine degli ani ’20 in questa villa, insieme alla madre, dopo che il padre aveva dilapidato sui tavoli da gioco, in compagnia di giovani ballerine, il patrimonio di famiglia. Impensabile all’epoca immaginare la villa senza cani, di essi i Piccolo si prendevano estrema cura.

Il cimitero è un luogo che custodisce molto più che la memoria degli “amici a quattro zampe”, è luogo di meditazione e di incontri, perché i cani accompagnano i vivi anche dopo la morte nell’esperienza della quotidianità.

Appassionati di esoterismo, i 3 fratelli credevano infatti nella reincarnazione e dicevano di vedere le anime dei loro cagnolini defunti aggirarsi ancora per casa di notte come raccontava Casimiro Piccolo, nel 1967 in un’intervista: “… Un mio cane morto da nove anni io l’ho visto tre volte. Ma visto bene.

Completamente materializzato due volte, una volta trasparente; ma l’ho visto pure. Poi venne a battere alle porte, a bussare, ad abbaiare di notte, abbaiare da fare spavento, nella stanza all’angolo della mamma.

Si figuri che lo sentiva lo chauffeur da sotto […]” Nel piccolo cimitero sono stati seppelliti 2 gatti e 38 cani e tra di essi vi è anche Crab, fedele compagno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo scrittore, cugino dei fratelli Piccolo, si recava spesso in visita nella villa di Capo d’Orlando, trovandovi un rifugio sicuro.

Chiamò Crab il suo pelosetto come il cane di Launce, ne i Due gentiluomini di Verona di Shakespeare. A un'altra cagnolina mise il nome Pop. Il figlio adottivo Gioacchino raccontava che lo scrittore amava molto i cani, ne ebbe diversi e li trattava come figli. “Mia cara Licy”, scriveva alla moglie lontana Alessandra Wolff von Stomersee "parliamo di cose serie: i cagnolini stanno bene".

Il cane Bendicò è il protagonista del suo romanzo Il Gattopardo. Fu lo stesso Tomasi ad affermare in una lettera del 30 maggio 1957 al barone Enrico Merlo di Tagliavia : “Fai attenzione: il cane Bendicò è un personaggio importantissimo e quasi la chiave del romanzo”.

Seguendo questo filo effettivamente è possibile trarre dal cane, l’unico vero amico del principe Fabrizio di Salina, delle indicazioni importanti in tutto lo svolgimento della vicenda: dalla sua prima apparizione nella sala dove si è appena conclusa la recitazione del Rosario, alle pagini finali quando morto e ridotto a tappeto viene fatto volare giù dalla finestra verso il mucchio dell’immondizia da smaltire: nel volteggio del cane, che per un attimo sembra animarsi nel volo, c’è la metafora conclusiva della fine della casata.

Vogliamo chiudere la nostra carrellata di animaletti amatissimi con lo stravagante barone siciliano Agostino Fausto La Lomia (1905-1978) che aveva due compagni inseparabili, il gatto e un merlo.

Il gatto, rimasto orfano alla morte del suo precedente proprietario, il sacerdote padre Meli, era stato adottato dal barone, che lo aveva nominato ufficialmente "referendario" del regno di Capo La Croce, isola del mar taorminese.

Il merlo invece era stato investito del ducato di Santa Flavia. Dovunque andasse (Taormina, Roma, Venezia, Montecarlo) il bizzarro barone non poteva mai fare a meno della compagnia del merlo e del gatto, che trasportava nelle loro gabbiette.

Quando il nobile siciliano si intratteneva in compagnia di belle attrici e ballerine, il merlo era sempre presente; l’uccello non voleva invece saperne di religione e di andare in chiesa; quando il barone passava dagli eccessi della mondanità a quelli del misticismo doveva ritirarsi in preghiera da solo.

Purtroppo il gatto Annarino morì investito da un’automobile e il barone inconsolabile non solo fece pubblicare un necrologio sul Giornale di Sicilia ma organizzò anche un solenne funerale, sena badare a spese. Il necrologio recitava: “Investito da mano pirata è deceduto tragicamente il 5 Agosto 1969 a Canicattì S. E. il Referendario Paolo Annarino e Gatto.

Né dà il triste annunzio don Turiddu Capra, duca di Santa Flavia e Merlo, che lo ebbe padre, fratello e amico. I resti mortali saranno tumulati di fronte al mare Ionio nell’isola di Capo La Croce in quel di Taormina".

Della perdita di Annarino si consolò invece presto il merlo, duca di Santa Flavia, tra condoglianze e libagioni di latte, godendosi da solo una suite nel lussuoso Hotel San Domenico di Taormina.
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