ARTE E ARCHITETTURA
È un giallo archeologico, lo cercano da secoli: la storia del "Colosseo invisibile" di Palermo
Era un anfiteatro per gli spettacoli ma dove fosse ubicato con esattezza non si sa. Numerose le ipotesi circolate fino a oggi, dai Danisinni al quartiere della Loggia
Un'immagine del Colosseo di Roma riutilizzato con le botteghe
Ben poco sappiamo della storia urbanistica di Palermo durante il dominio romano: a parte le rovine degli edifici ritrovati tra la metà Ottocento e i primi del Novecento in Piazza della Vittoria e i lacerti di pavimentazione musiva rinvenuti nella zona di Piazza Sett’angeli, sembra quasi che la presenza romana non abbia lasciato traccia: probabilmente perché il nucleo originario della città antica ha subito nei secoli radicali trasformazioni.
Inoltre non dimentichiamo che la dominazione araba ha cancellato anche toponimi che avrebbero potuto fornire importanti riferimenti.
Ragionando per ipotesi dunque, in considerazione dell’importanza che Palermo ebbe durante l’età imperiale, dobbiamo immaginare che la città fosse popolosa e che avesse importanti edifici privati e pubblici: di certo sappiamo che aveva un anfiteatro.
A testimoniare l’esistenza dell’anfiteatro di Palermo, vi è una lacunosa epigrafe del II secolo d.C. circa, rinvenuta nel piano di S. Cataldo. Nell’ iscrizione la città celebrava e rendeva merito a un certo Aurelianus, un "munerarius" - ossia promotore di giochi gladiatori e di "venationes" (combattimenti) con animali esotici - che aveva organizzato meravigliosi spettacoli per i cittadini.
Gli anfiteatri di solito avevano grandi dimensioni e venivano realizzati a una certa distanza dal centro cittadino, spesso all’esterno delle mura urbane, nei pressi delle principali arterie viarie (per facilitare il trasporto degli animali e agevolare il facile afflusso/deflusso del pubblico).
Questi edifici ebbero il loro momento di massimo splendore in età imperiale, tra I e II secolo d.C, ma con il diffondersi del cristianesimo, iniziò la parabola discendente degli spettacoli. Nel 326 d.C. L‘imperatore Costantino vietò i combattimenti dei gladiatori, che tuttavia furono aboliti definitivamente solo nel 403 da Onorio.
Gli anfiteatri iniziarono così a subire un lento e inesorabile processo di abbandono e decadenza: l’anfiteatro di Milano, ad esempio, venne spogliato, per la realizzazione della vicina chiesa di San Lorenzo Maggiore; Papa Innocenzo IV nel 1244 concesse gli spazi agibili del Colosseo per la realizzazione di botteghe di artigiani.
A Firenze sull’anfiteatro sorsero delle abitazioni e tracce della pianta ellittica dell’edificio sono visibili dall‘alto, nei pressi di piazza Santa Croce; a Lucca, l’antico anfiteatro è diventato una delle piazze più caratteristiche d’Italia.
In Sicilia ricordiamo l’anfiteatro romano di Catania (oggi quasi tutto interrato, è visibile solo una piccola sezione nella parte occidentale di piazza Stesicoro) e quello di Siracusa (riportato alla luce nel 1839 da duca di Serradifalco, si trova nella zona archeologica che comprende il Teatro greco e l'ara di Ierone II).
L’anfiteatro di Palermo è un "giallo" che da diversi secoli appassiona gli studiosi, perchè non si sa con esattezza dove fosse ubicato.
Paolo Storchi, dell’Università di Bologna, ha avanzato nel 2013 alcune interessanti ipotesi.
Una costruzione visibile in città fino alla metà del Cinquecento e tradizionalmente interpretata come edificio per spettacoli di età romana, è l’Aula Viridis o Sala Verde del Palazzo Reale di Palermo: secondo Basile era un anfiteatro, mentre per Michele Amari un Circo.
Un’interessante descrizione della Sala Verde ci è stata tramandata da Tommaso Fazello: era un edificio “largo, spatioso, e tanto grande, che si potevano far dentro spettacoli e giochi".
Purtroppo nel 1447 la costruzione venne utilizzata come cava di materiale per la costruzione del convento di Sant’Antonino, nel 1454 duecento "carrozzate di pietra" della Sala Verde vennero vendute dal Castellano del Real Palazzo e nel 1549 la costruzione servì come cava di pietra per rafforzare le mura cittadine.
In virtù delle testimonianze riportate si comprende che, anche effettuando scavi archeologici nell’area, oggi ben poco si potrebbe ritrovare.
Un'altra ipotesi sull’ubicazione dell’anfiteatro è quella proposta da Vincenzo Di Giovanni, che affermava di riconoscere nella forma squadrata della Sala Verde i resti della basilica romana della città e suggeriva invece di cercare l’anfiteatro nella via Montevergini dove, secondo la tradizione popolare vi erano cunicoli sotterranei e stanzette nascoste, poste al di sotto della pavimentazione dell’attuale piazza Montevergini.
Questa ubicazione sembrerebbe ragionevole, anche perchè alcuni saggi archeologici della zona hanno rivelato la presenza di mosaici romani riconducibili ad abitazioni private.
Storchi ricorda anche la suggestiva incisione apparsa sulla rivista francese Le Magasin Pittoresque del 1874: Essa rappresenta il «quartiere dei lavandai, sobborgo di Palermo».
Vi si illustra una struttura dalla strettissima somiglianza, anche in virtù di quello che pare l’ingresso ad un corridoio anulare, sull’estrema sinistra dell’immagine, con un edificio per spettacoli scavato nella roccia, forse proprio il teatro.
Il testo a commento dell’immagine non dà alcuna indicazione di dove si trovi, di preciso, il luogo ritratto. "Data la titolatura dell’incisione, per ragioni di affinità semantica, Storchi ipotizza che quello che l’incisore indica come quartiere dei lavandai possa essere identificato con quello dell’attuale via Panneria, ma in realtà l’incisione raffigura come si evince anche da un dipinto di Riolo, il quartiere dei Danisinni nell’Ottocento.
Storchi avanza poi ancora un’altra congettura, immaginando l’esistenza dell’anfiteatro nella zona compresa tra via Roma, via Monteleone, vicolo San Basilio e Piazza San Domenico.
Osservando gli isolati dall’alto, risulterebbe evidente, la forma semicircolare delle coperture degli edifici (sebbene secata dalla costruzione nel 1906 di via Roma).
Inoltre ricorda Storchi che gli interventi per la riedificazione della nuova chiesa di San Domenico, collocabili intorno al 1640, comportarono la demolizione di un intero quartiere, definito nel 1476 «i postriboli pubblici»: "Si tratta soltanto un labile indizio" scrive Storchi, ma si tenga presente che spesso la struttura chiusa dell’anfiteatro è stata riutilizzata come postribolo, perché riusciva ad isolare determinate persone dal resto della comunità: ad esempio nel caso dell’ arena di Verona e dell’anfiteatro di Arezzo.
Un’ultima poco probabile ipotesi è quella della zona dell’Olivella: "Circa 350 m a nord, in linea retta, dalla ipotizzata cavea si incontra via Mariano Stabile che, ci riferisce Giuseppe Pitrè, era, fino al 1860 popolarmente denominata «Ciccu di Palemmu». (Circo di Palermo).
Questo toponimo, se fosse possibile verificarne l’antichità, potrebbe indicare il ricordo dell’effettiva esistenza di un circo – romano - nell’area".
Una interessante proposta di identificazione dell’anfiteatro romano in tempi recenti è stata avanzata da Giuseppe Ferrarella, architetto e docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre e presso l’Università di Palermo, nel saggio "Persistenza delle forme nell’architettura della città. Congetture sull’anfiteatro di Palermo" (2022).
Le indagini di Ferrarella cercano, con rigore scientifico, di ricostruire la morfologia della città in epoca romana, prima dei numerosi stravolgimenti avvenuti in epoca medievale.
Lo studioso ha voluto rinvenire "tra le pieghe degli edifici della Palermo antica una traccia che evocasse prepotentemente l’antico anfiteatro", ricorrendo anche alla lettura di planimetrie, all’osservazione di vie e allineamenti murari, allo studio di foto aeree.
Egli ha ritrovato quelle che sembrano persistenze ancora leggibili del grandioso edificio romano, come nel già citato caso di Firenze, nel tessuto edilizio dell’area del quartiere della Loggia.
Il saggio di Ferrarella, attraverso ragionamenti e deduzioni offre un’interessante e approfondita analisi dell’assetto urbano della Palermo romana; ma anche questo studio sull’identificazione dell’anfiteatro, seppur stimolante, convincente e ben articolato, come ha affermato anche l’architetto e storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro, sulle pagine del Giornale di Sicilia, apre uno spiraglio nel buio storico dell’epoca romana, ma resta purtroppo al momento nel campo delle ipotesi.
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