ATTUALITÀ
Disorganizzati, malati di sesso e ovviamente mafiosi: se i siciliani sono negretti sbiaditi
Cronache di un incontro di quelli belli: la fanciulla milanese sale sul bus diretto ad Agrigento e masticando una gomma comincia a parlare al telefono
Conosco buona parte delle regie trazzere, i vicoli più oscuri delle città, i bagni gratuiti e igienicamente calpestabili, le bettole e i b&b in cui mangiare o dormire a poco prezzo. Purtroppo odio viaggiare. Vabbè.
In venti ore mi è capitato di percorrere la bellezza di settecento chilometri. Potrà sembrare assurdo, date le condizioni delle strade. Eppure ce l'ho fatta. In che modo non so, ma ce l'ho fatta.
Di contro, per centoventi chilometri, una volta ho impiegato nove ore. Alcuni anni fa, inoltre, sono partito da Messina con il buio dell'alba e, fortunosamente, ho raggiunto Palermo con il buio della notte. Capita.
Tra le tante, la tratta che percorro maggiormente è la Catania-Agrigento con l'autobus della Sais. La cadenza è di una volta la settimana.
Di gente, per strada o nei mezzi, ne incontro parecchia, davvero parecchia. Non parlo con loro, per via di una misantropia congenita incurabile.
Ma questo non mi eviterebbe di stilare un simpatico saggio sui tratti genetici, sui comportamenti o, chessò, sul pensiero comune; un saggio romanzato, poco scientifico e tanto paradossale: un po' come i protagonisti.
Una tesi che potrei dimostrare nel saggio sarebbe quella della somiglianza tra le persone. Le persone sembrano differenti l'una dall'altra, e invece tra esse ci sono più somiglianze di quanto crediamo.
Non dico che siamo tutti uguali, ma è come se ci fossero degli "stampini" mediante i quali veniamo creati e gettati nel mondo, diretti verso il nostro destino (ch'è uguale per tutti).
C'è quello che parla, parla, parla; parla con te, con quello accanto, da solo, con se stesso riflesso nel finestrino; e cosa dica, non si sa; tuttavia parla, parla e parla.
C'è quella che aspetta di essere sedotta dal compagno di viaggio e, prima di partire, inonda di sensuale profumo l'abitacolo, si trucca assai sexy, con il rossetto fino agli zigomi e l'eyeliner alle orecchie, si sbottona la camicetta e fa di tutto per creare equivoci.
C'è il ragazzino con il volume delle cuffie così alto che, quando sbadiglia, la musica gli esce dalla bocca.
C'è la signora anziana che non sa dove si trova, chiede informazioni ogni cento metri e afferma che all'arrivo lo attende il nipote, uno troppo bravo, con una laurea importante che ella non sa nemmeno pronunciare, ma disoccupato a causa di questi maledetti «stracomunitari che ci arrubbano il lavoro».
Ci sono gli innamorati di primo pelo che, poco ci vuole, inscenano un film porno. E poi c'è quello che deve fare i comizi e ce l'ha a morte con i politici "ché sono dei fannulloni, si hanno mangiato l'Italia e noi che paghiamo le tasse stingiamo le panze". Insomma, sempre le stesse storie.
Nell'ultimo viaggio da Catania ho incontrato una meravigliosa fanciulla che era sfuggita alla mia lista di curiosità antropologiche.
Aveva il fascino di una valentissima influencer: capelli biondi piastrati, lucidi e flessuosi; minne generosamente in mostra, tatuaggio tribale e lunga lista di nomi di uomini dal collo all'ombelico, accessori dorati, leopardati e fluo sparsi per il corpo, fin dove il corpo lo consentiva, scarpe da tennis bianchissime, che, credimi, sembravano acquistate un minuto prima, un culo ampio quanto il cassone di un pick-up, da cui pendeva una coda, forse un cavetto usb, e un accento milanese, milanese stretto stretto.
La fanciulla, salita all'aeroporto, era diretta ad Agrigento. Ignoro le ragioni. So solo che, masticando rumorosamente una vistosa gomma color rosa, sedette nella fila dirimpetto la mia.
E sistemata un'ingombrante borsa di pelle con le borchie, cominciò a parlare al telefono, per la gioia dei viaggiatori.
I suoi argomenti erano ricchi di contenuti: in pochi minuti ne disse talmente tante contro i siciliani che, i siciliani stessi, in questo modo volgare, non hanno mai osato fare.
I siciliani sono autocritici, si sa. Nessuno deve permettersi di parlar male di loro. Di sputtanarli è permesso solo a loro. I siciliani sono gelosi dello sputtanamento.
Ma lei, oh, più che critica era malvagia! Se i nostri conterranei dicono a se stessi qualcosa, lo dicono senza disprezzo, bensì con serietà, cognizione di causa e un minimo di tenerezza. Lei no, lei disprezzava.
Affermando alla sua interlocutrice che "questi negretti sbiaditi chiamati siciliani" sono disorganizzati, con poco cervello, puzzosi di formaggio. Pronti a fottere soldi a chiunque, inaffidabili, malati di sesso.
E sicuramente mafiosi: con lo sguardo, gli atteggiamenti, i pensieri. Perché quando fanno la fila al bagno, lo fanno da mafiosi; quando bevono il caffè al bar, lo bevono da mafiosi; quando si scaccolano, perfino il loro moccio è mafioso. Mah...
Dopo mezz'ora di volgarità, si lamentò di avere la nausea e, distesa su due sedili, quasi voleva vomitare. La strada in cui si trovava, diceva ancora al telefono, faceva schifo, era lunga, troppo lunga, troppo, e piena di avvallamenti.
Dall'altra parte del telefono le posero una domanda e lei urlò: «Dove mi trovo? Dove? Non so, c***o! Non si capisce nulla. Chissà quando arriveremo! Come? Uh, non ti sento! Uffi! Non c'è campo! Come? Autogrill? Macché autogrill! Qui non hanno nemmeno le strade, e vuoi che ci sia un autogrill? Ma sei fuori? Sembriamo in Africa! In Africa, capisci!».
Detto questo, una signora sulla sessantina che era seduta un posto avanti al mio si voltò di scatto e fissò la fanciulla con sguardo feroce.
Dai suoi occhi arrossati fuoriuscivano fiamme e ingiurie soffocate con discrezione. Poi la donna mi guardò e fece un cenno con la mano, come se volesse dirmi: «Poveraccia, è pazza...».
L'autobus raggelò. Un mormorio si diffuse nell'atmosfera. Sentivo dire, con accenti dell'agrigentino dell'entroterra: «Africani? Ma talìa 'sta vastasa!».
E anche: «Mizzica, si spremi 'sti picciotti acìtu ti nesci, ah?». Infine, dal fondo, la più affettuosa esclamazione: «Totò, daccillu un pugnu 'ntesta, fallu pi' mia ca mi veni mali di ccà...». E cose simili. Sai quell'area pesante che precede i secondi in cui sta per scoppiare una rissa? Ecco, questo era diventato l'autobus.
Uno mi guardò e disse: «Lei che pare un prufissuri, niente ci dice a questa?». Osservai le protuberanze corporali ignude della fanciulla e dissi a colui il quale mi incitava a risponderle che, effettivamente, non c'era alcuna offesa. E retoricamente argomentai.
Primo. L'Africa è il continente più bello e più antico del mondo. Ancora oggi, nonostante il secolare saccheggio, presenta la più importante varietà di ecosistemi.
L'ecosistema è ciò che permette alla fanciulla di sparare giudizi privi di senso; perché per sparare giudizi è necessario respirare e per respirare sono necessari gli ecosistemi. Non è tecnicamente un sillogismo, ma rende.
Secondo. In Africa si trova la cosiddetta "Culla dell'Umanità", un'area archeologica di circa 470 chilometri quadrati, composta da grotte di pietra calcarea in cui abitò 2,3 milioni di anni fa Mrs. Ples, un resto fossile di Australopithecus africanus, uno dei più antichi ominidi di cui abbiamo testimonianza. Questo ominide, secondo gli scienziati, sarebbe il nostro nonnetto in comune: mio, tuo, della fanciulla.
Terzo. Cosa significa utilizzare "Africa" per qualificare un disservizio di viaggio? E poi cosa ne sa, la cara fanciulla, del continente africano e dei disservizi? La sua esclamazione non è un'offesa per i siciliani, ma una blasfemia rivolta all'epoca in cui viviamo.
Quarto, e mi zittisco. Scienza e fede, è vero, riescono a conciliarsi difficilmente. Comunque sia, almeno in questo aspetto, hanno un punto d'incontro: le fonti bibliche e quelle evoluzionistiche affermano rispettivamente che la donna e l'uomo non furono creati o non si svilupparono a Milano per diventare, nel futuro, una fanciulla talmente scemotta che non è in grado di offendere adeguatamente la gente.
Dunque, cara fanciulla, impara a giudicare dai siciliani ed evita di dire minchiate, dai.
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