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Danno il nome a 2 vie di Palermo: chi sono i siciliani della più grande sciarra della storia

Due palermitani e un calatino furono i protagonisti della più grande rissa in Parlamento. Tutto è iniziato con quella che è stata definita la "legge truffa"

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 1 luglio 2024

Una celebre scena del film "Johnny Stecchino"

La ritirata è un’arte, c’è poco da dire, come anche quella della sciarra. Il professore Terranova diceva sempre: «Se non t’hai sciarriato mai, non ti sciarriare perché le scippi!». Era un filosofo il professore Terranova. A Palermo c’è una piccola strada (via Giuseppe Paratore), separata 14 km da una più nota (via Ugo la Malfa), a loro volta a 192 km di distanza da un’altra ancora (via Mario Scelba), nientepopodimeno che a Caltagirone.

Due palermitani e una caltagironese (o calatino): detta così pare che il qui presente sia caduto dentro un pentolone di Tavernello, come Obelix nella fantomatica pozione dei Galli. Tuttavia, vi assicuro che unendo i puntini, come nel famoso gioco de "La Settimana Enigmistica", verrà fuori la storia della più grande sciarra mai avvenuta in Parlamento, dove qualche siciliano le ha prese, qualcuno l’ha provocata, qualche altro s’è salvato battendo in ritirata. Fu proprio il professore a raccontarcela.
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Tutto accade nel 1953. Anno importante: in Russia muore Stalin, Elisabetta II viene incoronata regina di Gran Bretagna, Fidel Castro da inizio alla rivoluzione cubana, a Berlino gli operai protestano per le pesanti condizioni del lavoro e si schierano contro i carrarmati sovietici.

In Italia, per non essere da meno, il Parlamento approva la cosiddetta “legge truffa” con 174 voti favorevoli, le opposizioni che abbandonano l’aula e solo 3 astenuti. Giuseppe Paratore non è più il giovane deputato liberale della fervente Palermo e allievo di Crispi. Adesso ha 77 anni, combatte con la prostata ed è presidente della Camera del Senato.

«Professò, ma picchì si chiama legge truffa?».

Carollo, così disse il professore Terranova, sembrava babbo e lo era veramente, solo che quando si parlava di sciarre gli si accendeva il cervello e ogni tanto scattiava domande intelligenti.

Il fatto, ci spiegò, è che da una parte ci stava la Democrazia Cristiana, al Governo, e dall’altra socialisti e comunisti, all’opposizione. Il presidente del Consiglio era Alcide de Gasperi, nonché fondatore della stessa Democrazia Cristiana. Tra le fila della maggioranza sedevano anche il palermitano Ugo la Malfa, nominato ministro del Commercio con l’estero, ovviamente Paratore, e il calatino Mario Scelba, ministro dell’Interno.

È proprio a causa di quest’ultimo che nasce tutto l’intrallazzo e che la legge viene rinominata per l’appunto “truffa”, in segno di sfottò da parte delle opposizioni. La legge elettorale, scritta proprio da Scelba (porta il suo nome), prevede, infatti, che ove una fazione vinca le lezioni con il 50% + 1 dei voti, riceva nelle Camere in premio il 65% dei seggi.

La cosa viene studiata a tavolino proprio dalla maggioranza, che in quel momento vede un calo di popolarità, in modo da garantirsi una superiorità numerica anche se le prossime elezioni non vadano per il meglio. Il 21 gennaio di quell’anno la legge truffa di Scelba arriva per la prima volta alla Camera per essere votata.

Il comunista Palmiro Togliatti è il primo a inneggiare al tradimento, gridando: «Questo non è più un Parlamento!»; appresso a lui tutti gli altri. Calamai, sedie, tagliacarte, braccioli delle sedie, sputazzate, e in prima fila i fratelli Pajetta che strappano addirittura i microfoni per utilizzarli come clave.

Neanche una settimana dopo la legge passa al Senato, dove Paratore, e qui c’è la grande intuizione del genio, capendo che la carta è mala pigghiata, s’arritìra e dà le dimissioni. Al suo posto, Meuccio Ruini, che il 29 marzo, domenica delle Palme, si trova nella stessa Camera per la votazione finale della legge.

È contro di lui che le opposizioni si scagliano, come nella famosa scena di Johnny Stecchino al teatro: «La devi pagare! Sei un farabutto! Mascalzone! Affaffino!». I commessi creano una barriera umana attorno a Ruini per intimidire i malintenzionati, ma a poco serve perché il compagno Colla apre le danze servendo un montante alla Rocky Balboa ai danni del socialdemocratico Bocconi.

Scelba e De Gasperi se ne fujono, Andreotti resta fermo come una salma, solamente prende un cesto della munnizza e lo indossa come elmetto. Il senatore Palermo (che è napoletano ma Palermo c’entra sempre) butta per aria il sacco delle palline per l’appello. Castagno e Bei usano le tavolette dei banchi come tamburi, e una di queste arriva in testa proprio a Ruini.

Intanto la senatrice Merlin viene sovrastata da un attacco di isteria e gli occhiali di Pacciardi volano per aria, insieme ad un microfono che manco a dirlo colpisce il solito Ruini. Il palermitano Ugo la Malfa si prende una serie di schiaffi dal senatore Lussu, che manco Terence Hill nella scena del Saloon.

La mega sciarra dura 40 minuti filati, con tre microfoni strappati, 20 tavolette divelte, feriti (tra cui Ruini) e danni a poltrone e macchine per stenografi. La legge alla fine passa lo stesso. Apprese le vicende, non restò a tutti noi che fare tesoro delle parole del professore Terranova, evitando di sciarriarci e prenderle come La Malfa o quantomeno di battere in ritirata al momento giusto come Scelba e Paratore.

Diverso fu per il mio compagno Carollo, che affascinato da tutte queste sciarre in Parlamento si promise che un giorno anche lui sarebbe diventato deputato. Ci riuscì, o quasi, in quanto si sbagliò solo di una sillaba. L’articolo di giornale, anni dopo, infatti, recitava così: «Fruttivendolo arrestato per rissa al mercato. “L’imputato” Carollo si dichiara innocente».
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