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Coi nomi delle strade di Palermo ci apri uno zoo: perché la via Pappagallo si chiama così

Via gatto, Via Merlo, Vicolo Gallo, Largo delle Gazzelle, Cortile dei Lupi. Tanti luoghi con nomi diversi. Vi raccontiamo una storia che ci porta al centro di Palermo

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 26 gennaio 2024

Via del Pappagallo a Palermo

Erano i tempi delle scuole medie, e imparammo che con i nomi delle strade di Palermo avremmo potuto aprire uno zoo: Via gatto, Via Merlo, Vicolo Gallo, Largo delle Gazzelle, Cortile dei Lupi, via Grifone, Via Dell’Allodola, Via dell’Orsa Minore, Via dell’Orsa Maggiore, via Pappagallo.

Quest’ultima la scoprimmo grazie al professore Terranova, che sulla carta insegnava italiano e storia, ma in realtà faceva un po’ di tutto perché, preferiva dire lui, ci insegnava a campare.

Terranova diceva che c’erano vari modi di imparare una poesia. "A memoria", cioè meccanicamente e senza commettere errori, ma senz’anima, “par coeur”, come amano definirlo i francesi, perché una bella poesia non si impara solo con la memoria ma col cuore, e poi come faceva il mio compagno Carollo: "a minkia di cane".

Tutto il resto della classe, lamentava il professore, invece le imparava a "pappagallo"; menzione d’onore per l’altro compagno, Russo, che dei pappagalli era il re, tant’è che era convinto che l’ultimo verso del Cantico delle creature fosse: “Edizioni Paoline, finito di stampare il 22 giugno 1975 presso la tipografia Maniscalco".
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Per ottemperare a questa nostra mancanza di lirica, a proposito di pappagalli, Terranova decise quel giorno di portarci a fare una gitarella per la città, perché, diceva sempre lui, "a stare ogni giorno sui libri, rinchiusi in quattro mura, si diventa cretini".

Il signor Giordano faceva il custode, il bidello, la bidella, la donna delle pulizie, il fattorino e l’autista del pulmino della scuola, e di cui era pure il meccanico.

Quel giorno ci lasciò a Piazza Marina, o per essere più precisi, al Cassaro basso, oggi Via Vittorio Emanuele, in prossimità della vecchia prigione pubblica, la Vicaria. In questo carcere ci stavano rinchiusi tutti i peggio malacarne di Palermo, e il professore ci disse che se fossimo vissuti a quei tempi, sicuramente è lì che avremmo portato le arance al nostro compagno Carollo.

E nonostante Carollo ci disse di non amarle e di essere piuttosto un cultore del semprefresco col salame ungherese, il prof. ci precisò che in realtà ai carcerati si portavano le arance per non fargli contrarre lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di vitamina C e che per colpa dei fastidiosi sintomi rendeva le persone indisponenti, per questo etichettati come scorbutici.

Fu lì che Russo ebbe il lampo di genio, e si arricampò il giorno appresso con una cassetta di arance per il professore di matematica, perché in questo modo, secondo lui, si sarebbe calmato il sangue e non lo avrebbe cazziato più.

Attraversammo la piazza e ci infilammo per Via Quattro Aprile, dove nel 1860 sarebbe dovuta scoppiare una rivolta chiamata “Rivolta della Gancia”, capeggiata da un certo Riso, fallita ancora prima di iniziare perché qualche cornuto se la cantò. Il professore infatti non perse occasione di raccomandarci: "quando si ha un’idea, prima è meglio farla e poi dirla".

Questo preciso consiglio lo aveva seguito alla lettera un frate agostiniano di nome Diego la Matina, per anni prigioniero nelle carceri dell’inquisizione, lì vicino.

Un giorno che si trovava a colloquio con l’inquisitore Juan Lopez de Cisneros, che lo torturava sempre, senza dire niente a nessuno, gli diede un colpo in testa con le manette che gli stringevano i polsi e caput. Dove riposasse Diego nessuno lo sapeva, in compenso l’inquisitore era stato seppellito nella chiesa della Gancia che ci trovavamo di fronte.

Per tutto il tragitto seguente il professore cerco di spiegarci che queste cose non dovrebbero capitare, ma che a volte la vita fa schifo e le persone ancora più assai. Che purtroppo questo tipo di comportamento è insito nell’essere umano, e che certe volte l’uomo si metteva contro l’altro uomo per questioni di sopravvivenza, rispondendo al principio di "mors tua vita mea".

Eravamo in via Alloro, la strada dove anticamente abitavano i ricchi signori, Terranova non aveva nemmeno finito di chiarire questi concetti, che appena sentirono questa cosa dei "mors", Amato e Randazzo avevano ripreso ad aggallarsi per l’ennesima volta a colpi di sputazzate e mozziconi, lasciandosi addosso le stampe dei denti.

E anche se Amato aveva ragione perché Randazzo aveva messo in giro la voce che, per dirla pulita, sua madre usasse sbattere le uova con le mammelle, per i più complottisti a fare scopppiare il litigio fu l’influsso malefico di “Vicolo Sciarra”.

Passando da Via Merlo, chiamata così non per l’uccello ma per un palazzo, quello dei Marchesi Merlo di S. Elisabetta, anticamente dotato di una torre, arrivammo finalmente nella chimerica via del Pappagallo.

Quando gli chiedemmo se si chiamasse così per via di un altro palazzo appartenuto ad un qualche fantomatico duca o barone del Pappagallo, invece ci raccontò che questa via prendeva veramente il nome da un uccello.

Per la verità una volta si chiamava Via Gambacorta, non perché ci abitassero gli zoppi, ma perché prendeva il nome dalla nobile famiglia di origine pisana Gambacorti, arricchitasi con il commercio e trasferitasi a Palermo. Nel '700 però scoppiò la moda di portarsi appresso dai viaggi esotici strani animali.

Non era difficile infatti vedere, presso le case dei ricchi, scimmie, felini e volatili provenienti dalla più variegate zone del mondo. Ed era proprio in questa via, in quegli anni, dalle finestre di Palazzo Rostagni, al tempo appartenuto al duca Gaetani, che si affacciava un simpatico pappagallo con la parlantina, conosciuto un po’ da tutti i palermitani.

Se recitasse poesie o prendesse tutti a parolacce, questo non c’è dato saperlo. Quello che invece sappiamo è che fosse così famoso, ma così famoso, che quella restò e diventò a tutti gli effetti via del Pappagallo.

Quando incuriositi chiedemmo come facesse a saperlo Terranova nascose una piccola lacrima dietro gli occhiali da sole e rispose che lo sapeva perché c’era nato in quella via. E da bambino, nel dopoguerra, c’era anche una piccola trattoria chiamata "il Pappagallo". Era lì che il professore, quando se lo potevano permettere, andava a mangiare la domenica con sua mamma.

È proprio seduto ad uno di quei tavoloni divento ragazzino e poi giovanotto, sperando che da quella stretta via, spuntasse suo papà ritornato dalle colonie francesi.

Purtroppo il papà del professore Terranova non fece mai ritorno e l’osteria chiuse. Quando alla fine di tutto il discorso gli domandammo cosa c’entrassero questa storia con le poesie, ci disse che fondamentalmente non c’entravano proprio nulla.

Ma in fondo non c’era niente di più poetico di perdersi in vicoli apparentemente insignificanti ma pieni di ricordi e cose ancora da scoprire. In questo modo, diceva lui, la poesia non rimaneva impressa a memoria, ma "par coeur", come amano definirlo i francisi.
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