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Cicatrizzano, "attuppano" e sono super fotografati: storia dei fichi d'India, orgoglio siculo
Il fico d’india è per antonomasia il frutto dei frutti più rappresentativo dell’intera sicilianità e dopo averlo raccolto, generalmente si passa il pomeriggio a togliersi le spine con le pinzette
Mette la retro, riscende i due gradini che aveva appena fatto e già che c’è si ferma al bar a prendere un caffè. Compra il pane, che nononostante abbia detto "poco cotto" ha la consistenza di un monolite di Stonehenge, e si incammina di nuovo verso casa.
Gianluca arriva finalmente nel sottoscala... i fichi d'india si sono fottuti! Il fico d’india è per antonomasia il frutto dei frutti più rappresentativo dell’intera sicilianità, nonché il più dipinto e fotografato e che quando lo si raccoglie non importa se indossiate la Extravehicular Mobility Unit (la tuta spaziale della NASA per azioni extraveicolari) passerete comunque il pomeriggio a togliervi le spine con le pinzette.
Ecco, la tigre della Malesia di Sandokan si chiama così perché ovviamente veniva dalla Malesia, il canarino dalla Canarie, la fiorentina neanche a dirlo, la cutelettaal milanese porta la zona geografica già nel nome, Vito Corleone dal suo paese natale, e così via peri pistacchi Bronte, le arance di Ribera, la pesca bianca di Bivona e il nostro sindaco di Palermo che prende il nome dalla famosa squadra di pallacanestro dell’NBA americana: Orlando Magic.
Per questa sorta di sillogismo è naturale potere affermare che anche il fico d’india porta già la sua provenienza geografica nel nome; anzi, affermiamolo pure: il fico d’india viene dall’india. E seinvece vi dicessi che non si poteva sparare fesseria col botto più grande di questa e che invece proviene dalla parte opposta di quel punto del pianeta?
Ebbene sì, ancora una volta la colpa è del king di tutti gli stonati, del terrone sei sette mari, dell’incubo dei Tom Tom: Cristoforo Colombo. È il 12 ottobre 1492 e con il ruolo di ammiraglio il Cristoforo sbarca nelle Americhe denominando l’isola di cui bacerà la terra San Salvador… il problema è che è convinto di essere in India.
Non sono tutte rose e fiori le imprese che cambiano il mondo, e poco dopo cominceranno ad affiorare i primi problemi che porteranno l’eroe del nuovo mondo ad inviare un certo Antonio de Torres inEuropa a consegnare delle missive alle reali maestà che puntualmente non se lo fileranno di striscio liquidandolo con risposte del tipo “Ha fatto bene” o “Così si farà”. Pagine e pagine scriverà Colombo.
Le intemperie, le malattie, il cibo, avvelenamenti da frutti sconosciuti, il contatto con le popolazioni indigene, le scorte che stanno per terminare ma soprattutto, quello sembra essere il problema più grande di tutti, il vino.
Il vino è questione di tale importanza che in una lettera ai reali di Spagna l’ammiraglio genovese scrive testuali parole: “Del pari direte che, essendosi versato molto del vino che la flotta portava in questo viaggio e ciò, a quanto dice la maggioranza, per colpa del cattivo lavoro fatto dai bottai di Siviglia, la cosa di cui siamo più carenti e che ci aspettiamo ben presto di avere, è proprio il vino”.
Bugiardi, ve lo siete scolato tutto durante il viaggio! Passano i giorni, passano gli anni e siamo nell’estate del 1498. Il tono di Colombo si fa lecchino come il ragionier Ugo Fantozzi di fronte al megadirettore galattico. “Serenissimi, altissimi e potentissimi Principi, Re e Reginia, Nostri Signori, La Santa Trinità indusse le Vostre Altezze a questa impresa delle Indie, e per sua infinita bontà, me ne elesse ambasciatore”.
Sono passati sei anni e Cristoforo Colombo è ancora convinto di essere in India. Scoperta dell’America a parte i prodotti provenienti da nuovo mondo cominciarono ad arrivare con tempistiche assolutamente diverse man mano che ci si addentrava nei vari territori e si scoprisse che fossero commestibili: così per il pomodoro, per il peperone, il peperoncino, il cacao meravigliao e tanti altri (per alcuni ci vorranno anche cinquant’anni).
Non è però il caso del fico d’india che arriva quasi subito, e cioè nel 1493, dal suo habitat naturale che è il Messico (e se non ci credete andate an controllare la bandiera del Messico dove, ancora, sotto l’aquila che caccia il serpente, è raffigurata proprio la pianta di fico d’india. Probabilmente contiene la parola “India” proprio perché fu importato prima di Vespucci quando si credeva ancora che Colombo fosse in India.
Veniamo ora agli usi. Oltre ad essere notoriamente astringenti per via dei semi, tant’è venivano usati per calmare i temporali intestinali, avevano hanno proprietà cicatrizzanti: i soldati spagnoli applicavano direttamente la polpa sulle ferite e pare che questa pratica sia (datemene conferma) ancora viva in Sicilia.
Il fatto che sia astringente e che se mangiato in quantità attuppi della bella è il tema di una poesia del calabrese Giuseppe Coniglio (1922-2007) nel suo libro “a terra mia”. Togliendo in fine il decotto di fiori di fico d’india famoso per fare la “plin-plin”, quello che non sapevo e che se ne ricavasse anche il miele e dai semi un olio. Detto questo, siamo in piena stagione di fichi d’india.
La speranza è che non vi spiniate troppo assai ma soprattutto che ci andiate al leggio altrimenti San Timoteo e Sant’Erasmo da Formia, che sono i protettori del mal di pancia, dovranno fare gli straordinari.
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