ARTE E ARCHITETTURA
Ci sono pure 7 candelieri d'argento: i tesori (ritrovati) al monastero di Palermo
Pe la valorizzazione dell’ex complesso monastico, il rettore si spende da anni nel cercare di recuperare questo preziosissimo patrimonio. Ve ne raccontiamo la storia
Monastero di Santa Caterina (foto di A. Ardizzone)
Durante l’evento verranno presentate le nuove acquisizioni dell’ex complesso monastico domenicano, trasformato in museo nel 2017. La scelta della data non è casuale, il 25 novembre il mondo cristiano celebra infatti Caterina d’Alessandria: nata da stirpe reale, dotata di raro ingegno e bellezza, istruita in tutte le scienze, ma soprattutto nella filosofia, venne martirizzata nel 305, fu decapitata per non aver voluto cedere alle voglie dell’imperatore Massenzio.
Il monastero di Santa Caterina, fondato nel XIV secolo per volontà testamentaria dell’aristocratica palermitana Benvenuta Mastrangelo e della madre Palma Abate è stato abitato dalle monache domenicane fino a 10 anni fa.
Sviluppatosi intorno al nucleo fondamentale delle case dei Mastrangelo, nei secoli si è ingrandito, per accogliere sempre nuove religiose, fino ad assumere le dimensioni odierne ed occupare quasi un intero isolato.
Il monastero, che sorge proprio di fronte al palazzo pretorio, ha ospitato in 700 anni di storia monache provenienti dalle famiglie della migliore aristocrazia cittadina: i Del Carretto, i Lanza, i Branciforte, i Bonanno, i Tomasi, i Gravina, i Trigona di S. Elia…
Il Santa Caterina ha rappresentato per la città di Palermo un importante punto di riferimento spirituale e non solo. Nel Luglio del 1588 la priora del monastero chiedeva al consiglio civico che venisse concesso al monastero un po’ di terreno per fabbricare il nuovo dormitorio; la richiesta veniva quasi immediatamente accordata: “per essere detto monasterio principale et di quella qualità chi ognuno sape”.
Le monache domenicane venivano spesso rappresentate dai cronisti dell’epoca come autorevoli, addirittura superbe perché in possesso di “banchi di denari” scriveva Giuseppe Pitrè, denaro che veniva speso per abbellimenti della chiesa e del monastero e per l’acquisto di vere e proprie opere d’arte, autentici tesori, che negli anni successivi alla confisca del 1866 vennero requisiti per confluire nei musei di Stato.
All’atto della confisca, il 26 Gennaio 1867, il sig. Francesco Pagano procuratore della Madre Concetta Aloisia Gravina, faceva – inutilmente – presente all’ingegnere incaricato che “taluni mobili, arredi sacri, immagini ed altro esistenti nel locale del choro, ed in altri siti del monastero, si appartengono per conto personale a talune moniali del monastero istesso e quindi ha insistito perché indicasse la persona a cui i detti oggetti si appartengono”.
Il professor Giuseppe Meli infatti sceglieva e confiscava tra i beni del monastero le opere di maggior pregio, come ad esempio il polittico (XV sec.) Madonna in trono tra i Santi Caterina d’Alessandria, Paolo, Pietro e Domenico.
Altre opere furono portate via dal Santa Caterina negli anni successivi (spesso “solo provvisoriamente” si legge negli incartamenti); alcuni pezzi preziosi furono venduti dalle monache stesse (ad esempio il pavimento in maiolica azzurra del Coro Grande), costrette dalla fame, dopo la soppressione degli enti religiosi e il divieto per il monastero di possedere immobili e rendite.
Nell’ambito di un progetto di valorizzazione dell’ex complesso monastico, il rettore Padre Giuseppe Bucaro, si spende da anni nel cercare di recuperare, quando è possibile, questo preziosissimo patrimonio disperso, che merita di ritornare nel contesto d’origine, per cui era stato pensato e dove acquista oggi una vera collocazione di senso. Come ha affermato il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “I Musei statali dovrebbero restituire alcuni dipinti (ma il principio vale per tutte le opere d’arte n.d.r.) alle chiese, seguendo il principio del Patrimonio Culturale come museo diffuso”.
Tra le preziose suppellettili acquisite dal museo spiccano per bellezza e ricchezza un ostensorio, capolavoro di oreficeria siciliana, realizzato in oro, argento, smalti e pietre preziose e soprattutto 7 grandi candelieri d’argento. L’ostensorio è presente nell’elenco della dettagliata relazione redatta dal 30 dicembre 1866 al 1 Agosto 1867 dall’ispettore incaricato di fare un inventario di tutto ciò che il Santa Caterina possedeva e di esaminare i libri contabili.
Venivano catalogati tutti i beni immobili (beni rustici e urbani) e mobili (titoli, statue, arredi sacri d’oro e d’argento, mobili come sedie, cassettoni e tavolini, dipinti) persino la biancheria della Sagrestia (pianete, tovaglie, cingoli, cotte) e i beni impegnati al Monte di Pietà, istituzione a cui erano ricorse le religiose per chiedere un prestito, per il rifacimento dell’ala del monastero su Via Toledo (oggi via Vittorio Emanuele II) incendiata e crollata durante i bombardamenti borbonici del Maggio del 1860.
L’ostensorio (con raggiera d’ oro e pietre preziose) declinato quasi al femminile dalle mani esperte degli orafi siciliani che lo hanno realizzato, ha alla base della capsula un grande fiocco rosa di rubini e due angeli, che riproducono quelli di grandi dimensioni posti sull’altare maggiore della chiesa di Santa Caterina.
Sul piede dell’ostensorio, che serve da impugnatura nelle processioni, si notano alcuni importanti simboli religiosi in rilievo: l’agnello mistico, il cane con la torcia dei domenicani, il pellicano che nutre i suoi piccoli (simbolo cristologico), la corona di Santa Caterina (realizzata con diamanti e rubini) sormontata dalla stella a 6 punte, che svetta sopra un cuore fiammeggiante di zaffiro.
I 7 candelieri vennero donati da Giuseppe Gaetano Cottone, marchese di Altamira (1703-1757) alla Chiesa di Santa Caterina di Palermo, in occasione del suo matrimonio nel 1737 con Isabella Tarallo Rau Impellizzeri, di anni 18, figlia dell’illustre D. Pietro Tarallo duca della Miraglia.
Attraverso Isabella Tarallo veniva trasferito ai marchesi Cottone d’Altamira un cospicuo patrimonio edilizio come dote nuziale. La coppia stabilì la propria residenza nella casa Magnatizia dei Tarallo in Via delle Pergole.
Su ognuno dei 3 lati dei candelieri vi sono incise tre differenti immagini: lo stemma della famiglia Cottone (leone rampante con corona e rami di cotone fiorito), lo stemma di Santa Caterina (Santa Caterina con palma, spada, ruota) e lo stemma del monastero (cane con fiaccola, stella a sei punte e corona con giglio e palma).
Accanto ai “grandi tesori ritrovati”, negli ultimi anni stanno affluendo al monastero tanti altri piccoli tesori (ad esempio le fotografie e lo scialle in shantung di seta di Suor Francesca Realmuto donati dalla nipote, la sig. Basile) che appartenevano alle monache e che i familiari hanno deciso di donare al Santa Caterina, per partecipare come tasselli di un grande mosaico a ricomporre una immagine sempre più ricca e dettagliata del Monastero, in virtù del grande significato simbolico, religioso e morale che ha avuto in quasi mille anni di storia, all’interno della storia cittadina.
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