LE STORIE DI IERI

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Un pezzetto di Palermo nella memoria di Auschwitz

  • 6 febbraio 2006

Questa storia di ieri, in qualche modo anomala perché non riguarda direttamente e fortunatamente Palermo, vuole essere tuttavia un dolente omaggio a due innocenti che in questi giorni della memoria non possiamo dimenticare. Olga Renata Castelli e Leo Colonna. Nacquero a Palermo e furono entrambi deportati ad Auschwitz. Non tornarono.

C’era il sole ad Auschwitz la vigilia di quest’ultimo Ognissanti. E il cielo era insolitamente turchese su quel marchio incancellabile dell’infamia nazista e su tutta l’incolpevole, cattolicissima Polonia che accendeva lumini e deponeva crisantemi sui marmi. Mentre stava per scadere il miracolo di foglie colorate che per Andrzey Stasiuk ad ogni autunno costituisce “una sorta di grazia o di remissione d’ogni peccato per il Paese”. Ma il sole di Auschwitz, quella mattina, non scaldava e non assolveva davanti al Block 27. Sulla cui soglia una donna anziana cercava di appuntare a favore del fotografo una piccola bandiera bianca e azzurra con la stella di Davide. Accanto alla targa con la scritta Historia Martirologh Zydow. Mentre, di fronte, il Block 21 di uguali mattoni rossi mantiene intatto, sul vetro della porta d’ingresso, l’avviso d’accesso proibito – eintritt verboten – al retrostante e famigerato ex reparto di chirurgia.

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Ma dal cui interno ora le parole scolpite di Primo Levi continuano ad ammonire: “Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita. Da qualunque paese tu venga, tu non sei estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile…”. Un pellegrinaggio simile infatti non può non incidere profondamente su chi prima di entrare in questo padiglione, che è curato dai sopravvissuti deportati politici italiani, si sia anche soffermato, cento metri prima, sullo spiazzo davanti alle cucine del campo. Per rendersi facilmente conto di ciò cui servì in quel punto del lager un pezzo di binario lungo una trentina di metri e sostenuto da possenti pali. Perché in quattro lingue, da un gran pannello costellato di foto, chiunque può sapere che quell’asse d’acciaio sostenne i corpi dei dodici prigionieri polacchi, colpevoli di avere avuto contatti con la popolazione civile, impiccati dalle SS il 19 luglio del 1943. “Nella più grande esecuzione pubblica del Lager di Auschwitz”. Quanto all’immensità del resto delle infamie che vennero perpetrate in quel campo e in quello limitrofo di Birkenau tutti sanno.

E non riteniamo che nel Giorno della Memoria resti altro da aggiungere se non il personale ricordo della famiglia, due genitori e una ragazza, che seguimmo mentre tenevano in mano piccole corone di fiori che avevano “Memoire d’Auschwitz” impresso sul nastro dai colori della bandiera francese. Omaggio che non portarono ai piedi del “muro dei ventimila fucilati”, che ancora unisce i block 10 e 11, all’estremo confine del lager. Ma che deposero proprio davanti al cancello comune a quei due siti d’orrore. Gli stessi che ospitarono Mengele e i suoi criminali esperimenti e nei cui sotterranei ebbero luogo le prime prove d’uso del gas Zyclon b. Quanto alla porta con la scritta “Arbeit Macht Frei” abbiamo preferito, significativamente, fotografarla dall’interno, mentre i pellegrini della vigilia d’Ognissanti lasciavano il campo. Dove chi scrive, senza accorgersene, ebbe la ventura – mentre cercava a suo modo di ottemperare al monito di Primo Levi – di portarne via la propria immagine riflessa dallo stesso vetro che protegge la foto segnaletica d’uno dei prigionieri polacchi pubblicamente impiccati nel 1943: Edmund Sikorski, nato il 19 marzo 1920, sul cui braccio destro restò il numero di campo 25419.

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