AMAZING (DIS)GRACE
Leggo "Conversazioni in Sicilia", sento odore di agrumi a Milano
"Conversazioni in Sicilia" di Vittorini accarezza delicatamente la nostalgia di chi ha oltrepassato lo stretto, regalando un sottile sollievo ai cuori legati all'Isola
Milano, navigli
Perché, mentre lui sente gli odori del ritorno, gli odori delle arance accatastate nelle ceste dei contadini che viaggiano con lui sul traghetto dello stretto di Messina, mentre lui descrive quelle dita di mani aride che rompono la buccia, che creano schizzi di succo d'arancia per poi inghiottire, con voracità, gli spicchi, mentre Vittorini descrive tutto questo a te sembra di essere lì.
E mentre il protagonista si avvicina sempre di più agli odori della tua terra, tu te ne allontani. E io, che ho sempre detestato gli agrumi sia per il loro sapore che per il loro odore, lo sentivo quell'odore. Lo sentivo così vicino, così vivo, mentre con la navetta aziendale, con il libro in mano e la sciarpa di lana avvolta intorno al collo, in una fredda mattina di febbraio milanese, percorrevo viale Tibaldi per andare a lavoro.
Lì, fino a Termini Imerese, ad ammirare le coste, il mare, quella torretta normanna abbandonata e, ai suoi piedi, i quattro bungalow bianchi. Così bianchi che ti sembra di essere in un paesaggio greco. Ma è la Sicilia. La Sicilia del mio finestrino era quella occidentale. Quella di Conversazioni in Sicilia è quella orientale. Cambia la zona, ma non cambia il mare.
Il grande Mediterraneo che si scagliava con forza contro gli scogli artificiali di Termini, contro le spiaggette piene di sabbia e piccoli sassolini lì intorno. Gli hotel, le case vacanze, le palme, le distese di carciofi e broccoli. Poi anche io, come il protagonista di "Conversazioni in Sicilia", ad un certo punto, lasciavo la zona costiera per entrare nella zona interna dell'Isola, dove il mare è così lontano e sconosciuto. Quasi difficile da raggiungere.
Tra colline e montagne innevate, così innevate che non te lo aspetteresti in un'Isola. Così alte, così fredde. E la vegetazione cambia. Le palme diventano rare e lasciano il posto a oliveti e, soprattutto, ordinati e composti vigneti. Nulla, in Sicila, tra le terre coltivate, è lasciato al caso. Filari retti su bene, con impianti che sorreggono le foglie della vigna. Una pianta accanto all'altra, con le stesse distanze. File così precise che ti sembrano disegnate con la riga.
E poi i vasti campi di grano, prima verdi e poi gialli, sotto il cocente sole estivo. E poi chiazze quadrate che, da verdi e gialle, diventano marroni in autunno. Oppure ancora, in primavera, dall'alto delle colline, ammiravo le distese e le pianure verdi. Ma con tanti verdi diversi. Ogni quadrato con un suo verde. Ogni angolo con una coltivazione diversa, con una pianta diversa, con un arbusto diverso.
E mentre l'anticipo di primavera veniva annunciato dai primi boccioli di mandorli che scorgevo nella stazione di Roccapalumba, l'entrata nelle mie zone natie era segnato dalle chiome colore argento dei sempreverdi ulivi. Sempreverdi, si, ma che sotto il sole risplendono ancora di più.
Quelle chiome dolci, mosse dal vento ancora fresco, quell'argento che si muove come un'onda sotto il sole. Il mare, alla fine, in Sicilia, non è fatto solo d'acqua. Ma anche da rami di ulivo, dalle chiome di ulivo. Da "Conversazioni in Sicilia" letto voracemente sulla navetta aziendale, così, ritorno alla mia infanzia. Ai miei 11 e 12 anni trascorsi, nel periodo estivo, seduta tra i rami dell'ulivo della campagna che era appartenuta al mio nonno materno.
L'ulivo lo riconoscerei ovunque. Come oggi.
Tornando a piedi dal lavoro, passando davanti alcuni uffici del comune in viale Tobaldi, ne ho trovati due. Lì, nel giardinetto del comune. Piccoli, e anche un po' deboli. Non vigorosi come quelli di giù. Saranno ancora giovani, pensai. Sarà il freddo a impedire di crescere meglio. Chi lo sa.
Ma un pezzo di Sicilia è lì. Un pezzo della mia infanzia è lì. Tra quella chioma dorata degli ulivi che sì, riconoscerei a distanza ovunque.
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