AMAZING (DIS)GRACE
Le sere estive: sogni sul prato della Magione
Distesi sul prato pensavamo che alla fine, per noi squattrinati, la vita fosse tutta lì. Sotto un cielo stellato, sopra un prato verde e umido, non pensavamo che ai nostri sogni
Così scorrevano le serate estive. In quel prato illuminato più dai pianeti e dai satelliti che dai lampioni. Una chiesa sconsacrata da un lato, il venditore ambulante di birre e panini dall'altro.
E su quel prato, noi studenti universitari reduci da ore di studio per la sessione estiva, ci scorgevamo nella penombra, ci salutavamo. Ci sistemavamo in cerchio intorno al tizio sconosciuto che portava la chitarra, ci distendevamo a guardare il cielo con l'erba sotto i capelli a farci da cuscino.
E chi ci pensava al futuro lì, alla Kalsa, nel centro storico di Palermo, in quelle fosse ricoperte di terra dopo i bombardamenti della seconda grande guerra.
Quelle ex fondamenta, quel prato diviso in quadrati e rettangoli dai resti delle mura, ci accoglievano e ci cullavano. Si restava così, immobili, con l'umidità dell'estate palermitana addosso, con il sottofondo di una chitarra scordata o di un violino giunto all'improvviso.
Perché eravamo universitari. Eravamo squattrinati e bastava poco, in quel momento della nostra vita, per renderci felici.
Distesi sul prato guardavamo stelle e satelliti. I più preparati riuscivano a dare un nome alle stelle: Venere e l'Orsa maggiore, l'orsa minore e Marte.
Distesi sul prato pensavamo solo all'esame andato bene o male, all'esame ancora da ai affrontare, all'appello spostato o alla sessione estiva finalmente conclusa.
Distesi sul prato pensavamo che alla fine, per noi squattrinati, la vita fosse tutta lì. Sotto un cielo stellato, sopra un prato verde e umido.
Non pensavamo al domani. Non pensavamo che ai nostri sogni.
Chi voleva diventare un penalista, chi un architetto. Chi aveva capito di essere iscritto in una facoltà che non gli piaceva.
Chi aveva già un lavoretto e lo difendeva con tutte le sue forze seppur precario, in nero, sottopagato.
Perché a quei tempi, distesi sul prato della Magione, ci importava solo dei nostri sogni e degli esami necessari per raggiungerli. E se avevi la fortuna di fare un programma in radio, di scrivere un libro di poesie o di cantare in una band, eri felice.
Si era felice con poco, e con pochi soldi in tasca. E avevamo tutto, tutto: il cielo, la terra, gli amici, la musica.
Quel periodo non durò poi molto. L'inverno arrivò puntuale e la primavera, al suo risveglio, quell'anno, non fu generosa.
Nel prato non c'era più l'erba che per tre mesi ci aveva fatto da cuscino. Dopo il solstizio d'estate, qualcuno provò a sedersi sulle fondamenta coperte di terra della Magione, utilizzando le solite vecchie tovaglie da mare.
Ma la terra brulla e dura ci respinse. Ci respinse tutti. Per anni la Magione non ci volle con se in estate.
Nell'ultimo anno della mia vita a Palermo, però, successe qualcosa. Qualcosa di bello.
Ci mettevamo tutti in cerchio lì, incuranti di quanto cuscino ci fosse sotto di noi, e guardavamo i focolieri disegnare in aria, nella penombra della Magione, cerchi e spirali.
Vedevamo giocolieri danzare con le loro palline e con i loro birilli. Le ballerine giungevano con gli abiti da scena e si lasciavano andare sulle loro note preferite. Vedevamo bolle di sapone crescere, farsi grandi, salire in cielo per poi scoppiare all'improvviso.
Ammiravamo acrobati che riuscivano a sollevarsi in alto. Li guardavamo e sembrava, con uno scherzo della prospettiva, che i loro piedi sfiorassero la luna. Per un attimo, per un momento.
Per un attimo, per un momento, non di felicità ma di serenità.
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