LE STORIE DI IERI
Filovie, dolci “pacchi” e qualità della vita nel gennaio palermitano del 1950
“Filovia” è termine che non si usa più da tanto tempo, almeno a Palermo. E anche chi visse qui negli anni Cinquanta adesso la stessa parola la confonde col filobus, che era quell’ibrido di tram, con le ruote di gomma e senza rotaie, che prendeva l’elettricità da un’intricata rete aerea e che dalla stazione Centrale portava fino a Partanna Mondello, a Monreale, a Torrelunga o a Vergine Maria. Mentre altro vocabolo d’allora ormai poco usato è “pacco”, s’intende in senso palermitano, oggi più comprensibilmente e forse anche insipidamente sostituito dal comunissimo “truffa”. Quanto poi filovia e “pacco” potessero avere qualcosa in comune a metà del secolo scorso non è che sia cosa facile da spiegare. Possiamo solo provare a farlo ricordando come a quel tempo i due termini fossero sicuramente indici della modesta qualità della vita locale.
E per rendersene conto basta tornare alle raccolte dei quotidiani del gennaio 1950. Perché giusto il giorno di quel Capodanno su “L’Ora del Popolo” risaltava il tariffario delle filovie in vigore dall’indomani. E dal quale si apprendeva che per le linee di città il biglietto di “corsa semplice” costava 20 lire in tariffa ordinaria. Per passare alle 15 lire della “tariffa ridotta” che ridiventavano 20 per quanti accortamente avessero acquistato un tagliando a tariffa ridotta di “andata e ritorno” dall’indispensabile omino in divisa. Appunto il bigliettaio, quasi sempre burbero ma non necessariamente scortese, che quando s’interrompeva accidentalmente il contatto con la rete elettrica usciva a ricollegare manualmente la lunga asta del bus al filo aereo come solo lui sapeva fare.
Come si vede tariffe sicuramente rappresentative del reddito medio cittadino. E tali ancora di più per chi oggi facesse caso all’offerta speciale in quei giorni vistosamente reclamizzata dalla Pasticceria Iris di via Roma. Noto posto di ristoro, “fondato nel 1888” ma naturalmente ben lontano dal lusso di tante pasticcerie d’oggi, dove anche quanti arrivavano col treno dai paesini dell’interno potevano rimettersi in forze con “una pasta e un caffè espresso” al prezzo di sole 25 lire. Notizia dalla quale viene facile passare all’ugualmente modesto livello dei “pacchi” che venivano, per così dire, recapitati nella stessa città. Dove peraltro le zecche clandestine coniavano al massimo monete da 10 lire e dove i lettori che il 27 dello stesso mese ne ebbero i tasca 15 per il giornale presero dettagliata conoscenza dell’ultima delle nostre “dolci truffe” – come le chiamava ormai il citato Quotidiano – e cioè di quella compiuta ai danni del pasticciere Schiavo di corso Olivuzza. Al quale, nella prima mattina del giorno precedente, era arrivata la telefonata di una donna che ordinava 1200 lire di cannoli e pastareale da recapitare in via La Mantia.
Con la raccomandazione di dare al garzone - tale Virgilio Romeo, secondo il brigadiere del vicino commissariato - anche il resto di un bigliettone da cinquemila. Ovvio che il pasticciere Schiavo quella volta il “pacco” finì praticamente per farselo da sé. Nel senso che Virgilio, insieme alle 3800 lire del resto, l’involto adorno della sua bella fettuccia azzurra dovette consegnarlo ai due mariuoli che lo attendevano nell’androne della citata viuzza. E in cambio di una gragnuola di pugni e delle ecchimosi di cui alla ricevuta rilasciata dal pronto soccorso allo stesso principale. Il quale, come usavano in quei tempi austeri i nostri commercianti, quella mattina fiduciosamente si era fatto il segno della croce per ringraziare il Padreterno delle 1200 lire, primo incasso della giornata.
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