LE STORIE DI IERI
Due feste che resero felice la città raramente felicissima
Ormai lo sappiamo tutti che Palermo, la città felicissima della quale si legge nel blasone del senato, ebbe in realtà poche ragioni per meritare quel superlativo. E mentre ci tocca amaramente constatare come non sia grandissima nemmeno l’attuale contentezza civica, va però ricordato che l’undici giugno del 1778 qui furono in parecchi ad essere davvero contenti. Per ben due ragioni che coincisero con altrettante funzioni pubbliche di alta portata. Perché quel giorno il discusso pretore marchese di Regalmici e il vicerè Colonna di Stigliano fecero alla città degli utili regali. E cioè, come tramanda il marchese di Villabianca, “il novello ponte dell’Oreto a Sant’Erasmo” e l’apertura al popolo della pubblica Villa Giulia. Due grandi opere alla cui inaugurazione intervennero con giusto orgoglio il “prorex” e i senatori, al completo, orgogliosi anche di aver dedicato alla viceregina donna Giulia Guevara il meraviglioso giardino che poi fu noto anche come “La Flora”.
Perciò fu davvero un posto di meraviglie quello che apparve ai palermitani dopo che venne giù la tela che fino all’arrivo della coppia vicereale aveva nascosto la monumentale porta della Villa. La stessa che ancora oggi si apre – o meglio, che resta sempre chiusa – di fronte al mare. Nel Foro Italico e a poche decine di metri dalla Casa che agli orfani della città avrebbe poi innalzato Padre Giovanni Messina, sant’uomo che qualcuno indicò come l’abusivo di Dio. Ma di questo parleremo in altra occasione. Mentre allora anche Villa Giulia riscosse l’incondizionata approvazione dell’aristocratico Villabianca. Un cronista che tenero per la plebe destinataria del regalo non lo fu mai: “Così le maldicenze dell’inetto volgo, che si era attirate il pretore Regalmici per l’impresa di detta villa, si convertirono in tal giorno in benedizioni ed elogi. Perocchè le cose buone sempre son commendabili e riescono gradite, sì ai buoni, che ai cattivi, non ostante le loro male voglie”. Testualmente.
Mentre va pure ricordato il fatto che il dotto marchese non disdegnò mai né il linguaggio sapido né l’ironia feroce dei palermitani plebei. Ciò di cui egli ebbe modo di dar prova dopo che “fu poi eretta, a 24 novembre dello stesso anno, sulla gran fontana della villa medesima la statua marmorea del vecchio Palermo”. Una scultura gigantesca del Marabitti che arrivò dal piano di Sant’Onofrio sulle spalle di cinquantasei bastasi o vastasi. Il cui appellativo non fu all’inizio parola d’offesa derivando dal greco “bastazomai”, equivalente di portare o trasportare. Mentre quanto al ritratto marmoreo del vecchio Duca coronato va detto che esso rappresentava – cosa che fa fino ad ora – il “genius loci” con tutti i suoi simboli più noti. Il cane, emblema di fedeltà. Il fascio romano che alludeva alla dignità del governo, la cornucopia dell’abbondanza di messi e frutta e il serpe attaccato al petto che “dinotava l’accortezza e prudenza de’ cittadini”.
Troppi simboli, forse, per i due visitatori, un messinese e un trapanese, che qualche tempo dopo chiesero provocatoriamente a un certo don Antonio Montalto, giudice della corte criminale, di aver indicato “dove il Genio poggiasse le natiche”. Domanda cui il nostro lepido concittadino, sempre secondo Villabianca, pare ebbe a rispondere “che ben avea quella statua due natiche grossissime e che sotto l’una tenea la città di Messina e sotto l’altra la città di Trapani”. Pudore ci impone di non riferire in qual punto delle ducali terga lo spiritoso don Antonio volle pure precisare che avrebbero potuto trovar posto le immagini dei due insolenti. Una risposta che si tramanda ebbe a suscitare “lunghissime risa” perfino nello stesso Viceré.
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