MISTERI E LEGGENDE
Avventure, fama e rapimenti d'amore: chi era il poeta "corna dure" nato a Monreale
C’è un "veneziano" nato a Monreale che, oltre che ad essere stato un eccellente poeta, ha vissuto un'esistenza piena di follie fino al suo ultimo e scalognato giorno di vita
Ritratto di Antonio Veneziano
D’altronde manco tanto torto avete... mica quando vi mangiate un piatto di pasta con le sarde gli domandate la biografia del cuoco al ristoratore. Comunque, pasta con le sarde a parte, c’è un "veneziano" nato a Monreale che oltre che ad essere stato un eccellente poeta (accussì si rici), ha vissuto un’esistenza avventurosa fino al suo ultimo e scalognato giorno di vita: Antonio Veneziano si chiamava.
Ma andiamoci per gradi così vi assuppate sta bella biografia per saldare il conto aperto con tutte le vite saltate fino a questo giorno (se il salto della prefazione fosse stata disciplina olimpica, a noialtri, quelli fatti a muzzo come, me, Usain Bolt ci avrebbe potuto fare da maggiordomo).
Il padre, pure lui Antonio, era stato un pezzo da novanta: maestro notaio, pretore di Palermo e Monreale durante la visita di Carlo V nel 1535 e altri ruoli nella curia. Proprio per l’arrivo del sovrano spagnolo fu costruita “Porta Nuova”, che era il punto di partenza della passeggiata d’accoglienza lungo il Cassaro che sarebbe terminata a piazza Bologni, dove ancor oggi c’è la statua del sovrano spagnolo che, una volta vista, sicuramente ha esclamato: “Matri, accussì lario sugnu!?”.
Non si sa se suo padre, Antonio Veneziano, aveva un problema con gentil sesso, o forse funzionava troppo assai, sta di fatto ebbe tre matrimoni e nove figli. Se già sono i assai i pensieri che porta un figlio, pensate gli abbili che faceva stu povero cristiano dalla mattina alla sera: l’ultima che gli combina suo figlio Giovanni è una faida contro la famiglia Scudieri dove ci scappa il morto e per il povero Antonio padre la malafiura e i dispiaceri arrivarono a mare.
Quando nel 1547 muore, forse di crepacuore, Antonio figlio (che in realtà si chiamava Antonello), rimane senza papà a soli quattro anni. Già promettente e dedito agli studi, al contrario del grande ‘gnurantazzo di suo fratello Giovanni, come Mel Gibson in Braveheart, il piccolo Antonio viene affidato allo zio sacerdote che lo fa entrare prima nel collegio gesuitico di Monreale e poi, visto che era il primo della classe, ancora dodicenne, lo manda al Collegio Massimo dei gesuiti di Palermo.
Da lì, passa pure a Messina e nell’arco di tutti ‘sti vai e vieni si mette a studiare retorica, grammatica, metrica latina, ebraico, greco, diritto e filosofia: era schiffarato il picciotto. Passano gli anni e il futuro poeta inizia anche il noviziato presso i gesuiti, poi, appena compiuti vent’anni, pensa fra sé e sé “ma cu mu fa fari a mia” e se ne torna a Monreale a riprendersi la sua parte di eredità che gli spettava, provocando un colpo di sangue ai fratelli che, intanto, erano tutti seduti a tavola che cantavano “Ma che ce frega, ma che ce importa”.
Passa poco e suoi fratelli iniziano a combinare di nuovo guai con altre famiglie tant’è che, Antonio compreso, vengono portati al Castello a mare a Palermo e puniti con sette tratti di corda (cioè, con il polsi legati dietro la schiena sollevati di botto per sette volte).
Alla fine dopo cinque anni di lascia e prendi, proprio grazie alle doti retoriche di Antonio, vengono scarcerati ma esiliati da Monerale; lui se ne andrà ad abitare a Palermo a casa della sorella Vincenza. Da quel momento in poi, magari colpa del carcere, ad Antonio viene la sindrome di Balotelli e ne combina una appresso all’altra.
Prima compie un rapimento d’amore ai danni di una certa Francesca Porreta, inoltre viene accusato di furto, e finisce di
nuovo al Castello a mare. La madre, che a Monreale la gente non faceva che sparlare su di lui, lo cancellò dal testamento tra la felicità dei fratelli; Antonio, che "corna dura" ci si poteva dire, per sfregio piglia la figlia di sua sorella Vincenza e gli intesta tutta la sua parte di eredità.
È proprio in questi anni che la vena poetica di Antonio esplode ed è proprio in questi anni che compone una delle sue ottave più famose “Celia”, forse dedicata alla nipote, e compone pure le epigrafe del monumento funebre di Guglielmo II
che si trova a Monreale.
Il successo gli dona riscatto e, come suo padre aveva fatto per Carlo V prima di lui, ad Antonio verrà affidata l’organizzazione dell’ingresso solenne del viceré Marco Antonio Colonna. E siccome Dio li fa e poi li accoppia, nel 1576 conosce quell’altro bello spicchio di Carlo di Aragona Duca di Terranova e, flippati con Pirati dei Caraibi, salpano alla ricerca di avventure, fama e amori struggenti.
Manco il tempo di issare le vele che fanno la fine di Fantozzi e del ragionier Filini, perché vengo attaccati e rapiti dai Saraceni. In prigionia diventerà amico di Cervantes (autore di Don Chisciotte) che come un disgraziato era pure lui prigioniero ad Algeri.
Il Senato pagherà il riscatto e Antonio Veneziano potrà tornare a Palermo come una celebrità, ricevendo, qualche tempo dopo, una lettera proprio da Cervantes che gli farà tanti complimenti per sue doti poetiche. Ci sarebbero troppe cose da raccontare, ma deve pur calare il sipario.
Nel 1588 Antonio viene accusato di essere l’autore di una scritta pubblica che sparolaziava contro il governo; per questo motivo finisce un’altra volta al Castello a mare che ormai è la sua seconda casa. Cinque anni dopo, mentre Antonio si stava mangiando un grappolo d’uva nella sua cella, non si sa come, non si sa perché, scoppia un incendio nella polveriera del
Castello a mare cui segue una violentissima esplosione visibile da tutta Palermo.
Il corpo del poeta, si dice sempre, fu ritrovato tra le macerie con il grappolo di uva ancora in mano. Fra le tante cose, si pensa che Celia in realtà fosse Felicia Orsini e che lo scoppio della polveriera fu una vendetta proprio del viceré Colonna, che nuovo a sté cose non lo era stato mai.
Antonio muriu e a storia finiu.
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