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Accoglievano le prostitute pentite (e non solo): quali erano le "case delle peccatrici" di Palermo

Erano istituti per accogliere le peccatrici pentite. Alcuni però col tempo assunsero carattere religioso e accettarono solo le vergini tradendo le intenzioni dei fondatori

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 30 maggio 2022

Ritratto di cortigiana - Gerolamo Forabosco (1605-1679)

A Palermo vennero fondati diversi istituti per accogliere le peccatrici pentite, ma con il trascorrere del tempo alcune di queste opere pie assunsero carattere religioso e a poco a poco accettarono solo le vergini, tradendo le intenzioni dei fondatori.

Il meretricio, scriveva Luigi Sampolo, era ritenuta dai legislatori un «male inerente alle civili società, ma che giovava a tutelare la pace delle famiglie», anche a Palermo avveniva in luoghi preposti, per evitare scandali ed era vietato per legge che le prostitute abitassero in mezzo alle donne oneste.

Federico II nel parlamento tenuto in Messina nel 1221 fece decretare che le cortigiane non andassero nei bagni pubblici con le donne oneste e che abitassero fuori delle mura della città. Tuttavia le donne di malaffare a poco a poco si introdussero dentro le mura, nonostante le difficoltà a prendere a pigione una casa per destinarla all'indegno traffico.

Parallelemente al fenomeno della prostituzione, a partire dal XVI secolo grazie allo spirito caritatevole di alcuni benefattori furono fondati a Palermo ricoveri per cercare di "emendare" le donne traviate.
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Si trattava di istituti di carità, dove, lontane dal mondo che le aveva corrotte, le peccatrici potevano ridivenire oneste e potevano imparare un lavoro per emanciparsi economicamente. I reclusori offrivano un rifugio non solo alle prostitute ravvedute ma anche a vecchie meretrici costrette a vivere reiette dagli onesti, tra le miserie, gli stenti e l’universale disprezzo a causa della vita condotta; alle zitelle che avevano perso l’onore, alle donne riparate e alle mogli male maritate. Nella maggior parte dei casi si trattava di giovani prive di mezzi e in condizione di bisogno.

Nel Monastero delle Repentite o di Santa Maria della Grazia, scriveva Agostino Inveges, avevano riparo “quelle misere donne, le quali la sordidezza della lussuria desideravano colle lagrime e colla penitenza mondiare e limpiare e per(ci)ò eran chiamate le ree pentite”.

Il monastero era stato fondato nel 1524 da suor Francesca Leonfante dei Baroni della Verdura, religiosa proveniente dal monastero di Santa Chiara; ma dopo la morte della fondatrice, le poche monache trovandosi in grandi ristrettezze economiche erano state trasferite in altri monasteri e i benefattori Spatafora, Tagliavia e Arduino nel 1543 vi avevano istituito un ricovero per donne di mala vita ormai pentite della loro dissolutezza.

Nonostante si trattasse di una casa rifugio, a Palermo si continuò a chiamarla impropriamente “monastero” e venne soprannominato delle convertite o repentite (ree pentite).

La “traviata” che desiderava entrarvi doveva avere un’età massima di 25 anni, doveva essere in salute e sinceramente pentita. Accanto al monastero sorgeva una “casa di probazione”, dove bisognava dare prova di ravvedimento prima di essere ammesse definitivamente.

L’istituzione divenne religiosa meno di un trentennio dopo la sua fondazione e nei primi decenni del Settecento vennero escluse le peccatrici e furono accolte solo le vergini: così il primo istituto di emenda per le donne di mala vita deviò dal suo scopo e si trasformò da ricovero di beneficenza in luogo claustrale.

Sorgeva di fronte al monastero di Montevergini il Conservatorio delle male maritate o separate dai mariti, sotto il titolo di Santa Maria Maggiore fondato nel 1595 da Maria Piementel, moglie del Vicerè conte di Olivares. Quando il monastero di Montevergini venne ingradito nel 1606 la casa ricovero fu trasferita in via Vetriera dove venne distrutta da un incendio nel 1734 e poi, rialzata, dal terremoto del 1823.

La Casa e il conservatorio delle donne riparate nel vicolo dello Schiavuzzo sotto il titolo dell’Immacolata Concezione, che accoglieva le povere donne che avevano abbandonato la vita disonesta, fu voluta da due benefattori, il marchese Francesco Graffeo e il barone Antonio Colnago.

Venne inaugurata il giorno dell’Immacolata Concezione dell’infausto anno della pestilenza (1624) dal cardinale Giannettino Doria. Eretta prima nel palazzo Ajutamicristo, fu nel 1631 trasferita in via dello Scavuzzo, sotto il titolo di Casa e conservatorio delle donne riparate.

Le donne da ammettersi in questa casa dovevano essere violate e non accasate. Ne erano escluse le figlie di ebrei, turchi, ecc. Sull’esempio delle repentite, le riparate dello Schiavuzzo o Scavuzzo, dimentiche delle loro origini, andarono abbandonando la loro istituzione, atteggiandosi al vivere monastico.

Dopo 125 anni, per innalzare a maggiore dignità la struttura, venne chiesta nel 1715 al re la clausura. Il sovrano decretò che l’istituto conservasse la finalità per cui era nato, negando la clausura ma la casa cominciò ad accogliere solo vergini oneste, seguendo come le “repentite” la regola francescana.

Nel 1782 il Capitano di Giustizia Tommaso Celestra, marchese di Santa Croce, sapendo che sua cugina Caterina Colonna, duchessa di Reitano, moniale allo Scavuzzo era malata volle andare a trovarla. Lo Scavuzzo non aveva ottenuto la clausura, ma la superiora gli negò il permesso di entrare. Il Celestre, in un impeto d’ira reagì con un gesto esagerato, facendo abbattere la porta dai suoi uomini a colpi d’ascia.

Le monache, attaccate si difesero strenuamente, rispondendo alla violenza con altrettanta violenza, gettando acqua bollente sugli assalitori e lanciando sassi, vasi e ogni cosa capitasse loro a portata di mano. A battaglia finita la superiora venne richiamata e punita con un mese allo Spedaletto, ma si dichiarò comunque soddisfatta per aver avuto la meglio sul prepotente capitano.

Il conservatorio di San Pietro (così chiamato in onore dell’arcivescovo Pietro Martines Rubio) sorse per volontà del sacerdote G. Bonfante come ospizio per le donne tolte dal peccato, presso la parrocchia di San Giovanni dei Tartari. Nel 1666 venne trasferito nel quartiere dell’Albergheria, in via del Trappetazzo, presso porta Sant'Agata. Destinato dal suo fondatore ad accogliere solo donne traviate, fu scelto poi dalle autorità come luogo di pena delle donne discole, o come ricovero di quelle che corressero pericolo, per la cattiva morte dei mariti o dei congiunti.

Ritornato nel 1715 a ricovero delle ravvedute, nell’Ottocento ospitava sia le religiose che vestivano abiti monastici (anche se non avevano preso i voti) sia le donne che avevano perso l’onestà, le mogli divise dai mariti e raramente qualche meretrice ravveduta, poiché le religiose non avevano piacere a convivere con esse. Anche qui come altrove il reclusorio si era allontanato dallo scopo per cui era stato eletto e le volontà dei fondatori non erano state rispettate.

Il ritiro delle donne peccatrici sotto il titolo di Santa Maria Maddalena o reclusorio di Sant'Agata La Guilla era un istituto nato per dare ospitalità alle povere giovinette, che “prive di sussistenza si esponevano pubblicamente al peccato”. Venne fondato accanto alla chiesa di S.Agata alla Guilla da Giovanni Garzia e Girolamo Quaranta, due sacerdoti.

Le povere donne accolte vestivano l’abito delle Carmelitane e divennero ben presto note per la loro grande penitenza. Dopo soli 50 anni dalla sua fondazione non accoglieva più peccatrici, ma solo donzelle vergini.

Il Ritiro delle discole (scapestrate) sotto il titolo di San Giuseppe dietro il Carmine (1715-1794) istituito dopo il 1715, quando il reclusorio di San Pietro ritornò a ricovero delle ravvedute.

Infine la Casa di Maria Santissima delle abbandonate o di istruzione ed emenda in contrada degli Zingari (detta ritiro di Cozzo) venne fondata in contrada degli Zingari dal parroco dell’Albergheria Isidoro del Castillo nel 1749 per poter “fare ammenda le male femmine” in contrada degli Zingari. L’istituzione si mantenne grazie alle elemosine.

Nel 1829 c’erano 63 giovani donne che filavano, cucivano, lavoravano ai ferri e ricamavano. Solo questi ultimi due ricoveri elencati mantennero il loro carattere laico e rispettarono lo scopo per cui erano nati.

La scelta di alcuni di istituti di trasformarsi in monasteri (probabilmente per elevarsi) tradì le intenzioni dei fondatori e deviò i ricoveri dalla loro funzione originaria: offrire sostegno alle peccatrici in condizioni di bisogno. Molte donne che avrebbero potuto essere salvate dalla miseria e dal degrado, non essendo più ammesse negli istituti, finirono per essere abbandonate a loro stesse.
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