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A Palermo c'è il quartiere degli Schiavoni e nessuno lo sa: dimenticato tra le erbacce

È in pieno centro una delle aree archeologiche urbane più stimolanti del medioevo, nascosta da erbacce e dimenticata dalle istituzioni che però l'hanno "congelata"

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 11 settembre 2018

Le rovine del quartiere degli Schiavoni a Palermo (piazza XIII Vittime)

C’era una volta in un tempo quasi remoto una città le cui fortune mercantili erano interamente costruite su di un rapporto intenso con l’acqua e fu chiamata "Tutto Porto".

Se la storia di Palermo e della sua fondazione è cosa decisamente nota, un po’ meno per una sorta di alzheimer culturale è la storia tormentata di ciò che resta del quartiere degli Schiavoni del Seralcadio (harat as-Saqalibah) o piuttosto di quella stretta lingua di "terra archeologica" che ancora insiste cinta tra la piazza XIII vittime ed il sottopassaggio della Cala.

in quel non-luogo da cui tutti passiamo sempre e da cui scorgiamo solo l’oro di spighe incolte e non l’oro culturale che vi si cela poco dietro e ancora sotto.

Tra il raffinato obelisco progettato da Giuseppe Damiani Almeyda ed il monumento ai caduti di mafia disegnato dallo scultore Mario Pecoraino, insiste una delle aree archeologiche urbane più stimolanti del medioevo palermitano.
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Area di insediamenti mercenari, i primi furono slavi tra la reggenza tardo bizantina e subito araba, accampati tra le paludi dell’allora foce del torrente Papireto.

Da qui, alla conquista della città passarono navigando verso le odierne spalle della cattedrale le truppe armate di Belisario.

Con il successivo spegnimento della portata fluviale, l’area paludosa si prestò ad ospitare truppe e visitatori che non potevano abitare dentro la prima cerchia muraria, diventando durante e dopo l’espansione della seconda cerchia protettiva, necropoli di matrice araba.

A testimoniare la vivacità archeologica di questo sito per nulla valorizzato, sta l’ennesimo ritrovamento della scorsa primavera di una ventina di tombe medievali durante la costruzione del collettore fognario al terminale della via Francesco Guardione (leggi del curioso ritrovamento) e chissà quante ancora né sono presenti, di tombe, tutto attorno tra l’edificio comunale che non si riesce mai ad ultimare e l’anonimo spazio verde adiacente.

Nell’area che fino al periodo pre-bellico ospitava il mercato progettato da Damiani Almeyda e su cui insisteva la Porta San Giorgio, nell’incapacità di progettare una adeguata espansione del parco archeologico del vicino Castellammare , si è stralciata gran parte dell’area dall’uso turistico-ricreativo consentendo in alcune vaste altre aree la "provvisoria" (si fa per dire) destinazione consentita a parcheggio.

Pochi lo ricordano, ma proprio in quell’area denominata Castel San Pietro a principio degli anni Ottanta si stava per realizzare un articolato progetto residenziale progettato dall’architetto Giuseppe Laudicina che venne bloccato non appena avvennero i primi rinvenimenti archeologici.

L’area venne giustamente congelata dalla soprintendenza e da allora quella stretta porzione di tessuto urbano della harat as-Saqalibah pronto a sorprendere il mondo a dieci metri dal golfetto turistico dello scalo marittimo diportistico della Cala, appartiene all’oblio più assoluto.

Eppure basterebbe così poco. Basterebbe curarsi dell’area ed aprirla, basterebbe riprogettare l’intera area con servizi minimi per turisti e residenti, costruire uno spazio laboratorio-ludoteca per spiegare ai bambini cosa fosse Palermo fino a poco tempo fa.

Basterebbe costruire un paio di ponti ciclopedonali per superare l’ostacolo della strada che separa l’area dal mare e raggiungere i resti del mastio Arabo e le tracce arabo-normanne del castello e realizzare magari tra le rovine il museo della città proprio lì dove la città era più viva e vivace nel rapporto oggi perduto col mare, fondendo le parti archeologiche percorribili a piedi con una nuova struttura contemporanea e ci riprenderemo il mare e l’uso completo di quel tratto obliato di mare nostrum!

Come cambierebbe la nostra percezione del ricco passato che ci appartiene potendole toccare quelle pietre sepolte dall’incuria e come cambierebbe la domanda turistica di quel luogo che nessuno conosce ma così densamente ricco di storia e di storie?

Si può fare? Assolutamente si: l’area è regionale, i vincoli imposti dalla soprintendenza non cancellano affatto l’uso e la riprogettazione del comparto in chiave di costruzione e rigenerazione di servizi a supporto della valorizzazione di uno dei parchi archeologici urbani più ampi e preziosi dell’intera Sicilia.

E allora cosa si aspetta? Ecco sempre lo stesso nodo a definir il necessario orizzonte di cambiamento non più rimandabile.

Serve una classe politica all’altezza del compito, visionaria e competente, appassionata ad una bellezza, la nostra, che ad oggi resta e rimane un patrimonio materiale sepolto sicuramente sottoterra ma soprattutto sepolto sotto tonnellate di burocrazia ed incapacità pianificatrice.
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