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Successe a Palermo un capodanno di 200 anni fa: "Giuseppino" scoprì Ceres (che non è la birra)

Da bambino si faceva bastare la condensa nel vetro e l’indice della mano sinistra che usava per collegare una stella a un’altra fino a che non si formava un disegno

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 15 gennaio 2021

Giuseppe Piazzi

Mentre il camino riscaldava la casa che era ricoperta di neve, come di neve era ricoperto il paese di Ponte in Valtellina che, per farvi capire, come paesaggio non era troppo diverso da quello di Heidi, il piccolo Giuseppe stava con il naso contro la finestra a guardare le stelle.

Non aveva cartine astronomiche, così come non avrebbe potuto avere le applicazioni dei tablet che ci dicono i nomi di tutte le costellazioni, ma Giuseppino si faceva bastare la condensa nel vetro e l’indice della mano sinistra che usava per collegare una stella a un’altra fino a che non si formava un disegno.

Forse all’inizio non avevano tanto senso questi disegni, ma, a forza di fare esercizio e di chiedere un poco qua e un poco là, piano piano prendevano forma le costellazioni; quantomeno quelle più elementari.

Papà Bernardo fumava la pipa seduto sulla sua sedia mentre la mamma, Francesca, cucinava la polenta e tutti gli altri bambini (perché Giuseppe era il penultimo di dieci figli) stavano attorno al fuoco a guardarla. E così, tra un ceppo e l’altro che buttava nel camino per alimentare il fuoco, papà Bernardo lo guardava incuriosito perché sembrava non avere altro per la testa che il cielo sconfinato; chissà che cosa ci vedeva…
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Probabilmente perché Ponte in Valtellina non offriva più di tanto, o semplicemente perché era l’unico modo studiare, all’età di diciotto anni, nel 1764, Giuseppe Piazzi si trasferisce a Milano dove entra nel convento di Sant’Antonio dell’ordine dei Teatini.

No, non avete capito male, l’ordine dei teatini è lo stesso della chiesa di San Giuseppe dei Teatini di Palermo: Teatini, in latino “Theate”, significa di Chieti perché di Chieti era il vescovo che fu primo preposito di questo ordine. Milano, Genova, Torino, Roma, gira più di un rappresentante Giuseppe, ma, girando girando, ha la fortuna di avere grandi maestri e di studiare la matematica, la filosofia e il suo più grande amore che è l’astronomia.

Finiti gli studi passa dall’altra parte della cattedra e così si mette a insegnare filosofia a Genova, Matematica a Malta e pure teologia a Roma dove se lo prenderà a simpatia un collega un po' più grande di lui, Barnaba Chiaramonti si chiama, che ha idee strane per la testa e non fa altro che dire: “Chiesa più democratica, chiesa più democratica”.

Negli anni a venire Barnaba, forse ci aveva creduto troppo a queste fantasie, diventerà Papa Pio VII, verrà fatto prigioniero da Napoleone, e riuscirà a chiedere ed abolire la tratta degli schiavi in Europa; ma torniamo a Giuseppe che lo abbiamo messo un poco di lato.

Passano due anni e la Reale Accademia degli Studi di Palermo lo chiama per affidargli la cattedra in calcolo sublime (che non è un calcolo bello e buono ma calcolo infinitesimale, cioè cose che noi umani non possiamo neanche immaginare).

Altri sei anni di questi calcoli sublimi (si sarà arricriato tutto) e finalmente corona il suo sogno: il 19 gennaio del 1787 diventa professore di Astronomia. E siccome tutta sta tecnologia a Palermo non c’era, e nemmeno grandi esperti di astronomia, Giuseppe viene mandato - tutte cose aggratis - a visitare gli osservatori di Parigi e di Londra dove affinerà le sue conoscenze.

Manca due anni e torna a Palermo. Dopo tutti picciuli che aveva speso per farlo viaggiare e farlo studiare, il re Ferdinando III di Sicilia lo acchiappa e gli fa: “Giusè, qua ci sono soldi, quella è Torre di Santa Ninfa del Palazzo Reale, quando dici tu facciamo una bella specola…”

Eh no, Ferdinando non aveva intenzione di organizzare una bisca clandestina nella Torre Pisana del Palazzo Reale, la “specola” è un piccolo osservatorio astronomico che Giuseppe costruirà in appena un anno. Direttore dei lavori, dove ogni tanto porta l’amico Carlo Cottone, nel 1791, cioè appena finito, viene nominato pure direttore dell’osservatorio.

Dieci, nove , otto, sette, sei, zazueira, zazueira, dove poteva essere secondo voi Giuseppe Piazzi la notte del San Silvestro del 1800 e pure il giorno appresso, nonché il primo del 1801? All’osservatorio, ovvio che era all’osservatorio. Ed è proprio a Capodanno che Giuseppe nota un corpo nascosto nello sfondo stellato, e la cosa non gli quadra.

"Ma che fu, u vino di ieri sera? Sa’ che cosa gli ha messo dentro quel consunto di Carlo Cottone!" Guarda oggi, guarda domani, il corpo non è più nello stesso posto ma si muove. “Allora un fu u vino?”, si chiede a quale punto Giuseppe. Prende diario e penna (queste vero le sue parole sono): “La sua luce era un poco debole, e del colore di Giove, ma simile a molte altre, che generalmente vengono collocate nell'ottava classe rispetto alla loro grandezza. Non mi nacque quindi alcun dubbio sulla di lei natura”.

Poi ogni tanto il corpo spariva e tornava a pensare: "E se fu vino?". Inizialmente, per la verità, Giuseppe Piazzi pensò che si trattasse di una cometa, ma siccome non si portava appresso alcuna nebulosa, come fanno le comete, cominciò a studiarne il movimento. Purtroppo per lui non riuscì a seguire tutta l’orbita di quello che lui pensava fosse un pianeta perché, senza entrare nelle cose tecniche, quell’egocentrico del sole (eliocentrico è meglio) si andò mettere in mezzo facendo perdere le sue tracce.

Per fortuna in quegli anni Carl Friedrich Gauss, il principe dei matematici, il più intelligente, simpatico e cabarettista di tutti, scopre una nuova formula che torna utile agli astronomi per calcolare le orbite. Piazzi impazzisce, scoperta la notizia, ordina una copia del suo libro su Amazon e si rimette la testa sui libri.

E quando alla fine, tutto sudato e rincoglionito, arriva al termine di quel masochistico calcolo matematico, si rende conto che il corpo dal lui scoperto si trova esattamente dove formula vuole. “Grande Giove!”, esclama. Piazzi aveva scoperto un nuovo piccolo pianeta che all’inizio battezza Ceres Ferdinandea (e qua i più maliziosi come me hanno pensato che Piazzi si inchiummava di birra), in onore della dea romana Cerere, protettrice del grano di Sicilia.

Successivamente rimane solo Ceres perché stranieri non sanno pronunciare “Ferdinandea” e lo storpiano tipo come quando dicono “caubonawa” per intendere la carbonara. Il 22 luglio di molti anni dopo, a Napoli, Piazzi murìu e a storia finiù.
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