RICETTE
Sono deliziose bombe caloriche (di Palermo): ecco perché non dovete chiamarle "sfinge"
Vi raccontiamo la storia e vi diamo la ricetta di questi dolci belli da vedere e goduriosi al palato, simbolo della ricorrenza di San Giuseppe e della festa dei papà
Sfincia di San Giuseppe
"Specialità sfinge di San Giuseppe", si leggeva in un cartello affisso nella stanzetta con la ruota di metallo, nel piccolo parlatorio del monastero di Santa Caterina, dove le monache vendevano i dolci di produzione propria.
Ma il termine sfinge non aveva nulla a che fare col perfido mostro dal corpo leonino, era piuttosto il timido e goffo tentativo di italianizzare e nobilitare il nome di un dolce squisito, che in dialetto si chiama sfincia (sfinci al plurale).
"I sfinci" sono soffici frittelle che si sciolgono in bocca e che in Sicilia si consumano per tradizione da secoli. Recita un antico proverbio: “Li parenti di la mugghieri su sfinci Cu lu meli, Li parenti di lu maritu, su sfinci cu l’acitu" (Trad. i parenti della moglie sono sfinci con il miele, i parenti del marito sono sfinci con l’aceto”).
In passato esistevano diversi modi di dire, oggi scomparsi, che facevano riferimento ai sfinci: “Jittari sfinci (buttar via i sfinci) ossia affaticarsi inutilmente; "Diri sfinci", dire sciocchezze, prendendo per facili certe cosi difficili; "Esseri ‘na sfincia", ammaccato, aver perso la forma.
La sfincia è, secondo la definizione del medico e studioso delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, "una sorta di frittella formata di pasta frolla o liquida o fermentata, versata in olio bollente".
L’origine del nome come sempre è dibattuta; ne esistono numerose e differenti spiegazioni: Spatafora dal greco sfingo, ossia stringo; Vinci dal greco spongòs cioè globolo spongioso, Pasqualino dal latino frigo…L’etimologia più diffusa è quella del noto arabista Michele Amari, secondo cui il nome del dolce, che risale alla dominazione islamica, significa spugna: "Le paste fermentate e fritte in Sicilia al par che in Berberia si chiamano sfinci, dal latino spongia". (“Storia dei Musulmani di Sicilia”, 1868)
I sfinci nascono come cibo povero, "assai gradito al popolino": fritte nell’olio o nella saime (strutto) e poi cosparse di zucchero o miele, venivano vendute per strada, nelle bancarelle o nelle botteghe dello sfinciaru.
“Si chiama sfinciaru, ma chi vuol parlare in punta di forchetta lo dice friggitore…e si chiama sfinciaru, perché nella sua bottega si friggono sfinci, paste molli fermentate, che si friggono e si mangiano anche sparse di zucchero o di miele, o di vin cotto". (Hernandez De Moreno, 1893).
Lo sfinciaru non vendeva solo sfinci, ma pure broccoli e carciofi a la pastetta (in pastella), panelle, sarde a beccaficu, teste di capretto lesse e divise a metà, pesci fritti (capitone, sarde, baccalà, anguille).
Tornando alle nostre sfinci: è probabilmente all'interno dei monasteri che la ricetta di questo dolce del popolino, viene rielaborata e si arricchisce.
Nel monastero delle Stimmate, "monastero di nobili signore sotto la regola di Santa Chiara", le monache preparavano sfinci ammilati ( cosparse di miele) e sfinci fradici, con uova e panna, scrive il Pitre', mentre le domenicane della Pietà e le basiliane del Santissimo Salvatore facevano sfinci di riso - bontà oggi scomparsa a Palermo ma ancora molto diffusa nella Sicilia Orientale - .
Scriveva sempre il Pitrè in "La vita in Palermo cento e più anni fa": "Qualunque dolciere doveva andarsi a riporre, lasciando che questo si contrastasse il primato con le Stimmate nella bellezza delle sfinci ammilate che pure nel medesimo monastero assurgevano a squisitezza impareggiabile nella forma delle sfinci fradici ".
Dalla preparazione delle sfinci d'ova dei monasteri (composizione più nobile delle sfinci di pastella fermentata, scriveva Vincenzo Mortillaro marchese di Villarena nel 1853, "ove entrano delle uova battute, aromi, e zucchero") derivano le - relativamente - più moderne sfinci di San Giuseppe, presenti già nella Guida Gastronomica d’Italia del TCI del 1931.
In un antico ricettario monastico degli anni ’30 del Novecento, compilato da una suora cuciniera di Alcamo, veniva indicata la ricetta di sfinci d’uova, simile alla pasta dei bignè - che le suore chiamavano sciù (choux) - farcite con crema di latte (latte, amido e zucchero).
"kg 1 maiorca, in un litro d’acqua bollita con 100 gr di sugna, poi si mescolano n. 24 uova e si mettono a friggere. Dentro si mette la crema che si fa con due litri di latte, gr 200 di amido, n. 4 uova, gr 600 di zucchero, oltre quella da mettersi di sopra.
Negli anni ’50 i “Sfinci di San Giuseppe avevano già l’aspetto che conosciamo adesso: “little round cakes, filled with sweetened Ricotta cheese , chocolate , and candied fruit. Eaten on San Giuseppe's Day” (R. Hammond, G. Martin, Eating in Italy, 1957).
– Trad. piccoli pasticci sferici, farciti con ricotta, cioccolato e frutta candita - Anticamente a Palermo la triste e lunga quaresima di digiuno e penitenza dei monasteri veniva interrotta solo per un giorno, per i festeggiamenti del patriarca San Giuseppe, padre putativo di Gesù.
Mentre in città si offrivano tavolate imbandite di ogni ben di Dio, allestite per le vie, per sfamare i poveri e si preparavano le vampe, enormi falò - legati a primordiali riti agropastorali - che nei quartieri popolari avrebbero bruciato per tutta la notte, le monache (come emerge dagli archivi dei libri contabili) friggevano sfinci, cassatelle e cannoli.
La festa liturgica di San Giuseppe, che coincide con l’inizio della primavera, con il risvegliarsi della natura e con la celebrazione degli antichi riti agrari, attraverso la tradizione dei banchetti sacri, propiziava l’abbondanza.
Le tavole di San Giuseppe, spesso allestite per devozione, per grazia ricevuta, venivano riempite di tante prelibatezze: non potevano mancare la minestra di legumi e finocchietti, il pane (simbolo del lavoro dell’uomo), gli ortaggi cucinati in ogni modo e i dolci (in particolare quelli fritti), simbolo per antonomasia della festa: sfinci e cannoli.
Oggi i sfinci di San Giuseppe si trovano quasi tutto l’anno in pasticceria e ne esistono diverse varianti, create per accontentare consumatori sempre più esigenti: c’è la sfincia al forno, vegan (senza strutto e uova), con crema al pistacchio, al cioccolato… Se avete voglia di cimentarvi con la preparazione casalinga di questo dolce, ecco di seguito la ricetta.
Ricetta
Bisogna prestare molta attenzione alla frittura: fiamma vivace ma non troppo alta, altrimenti le frittelle all’esterno risulteranno quasi bruciate e all’interno crude.
Ingredienti per la pasta
300 g di farina 00 , 300 ml di acqua, 300 gr di uova (circa 6 uova medie), 80 gr di strutto, 1 pizzico di bicarbonato, 1 pizzico di sale
Per la crema
800 g di ricotta preferibilmente di pecora, 200 gr di zucchero a velo, 80 gr di gocce di cioccolato fondente
Inoltre
Olio di semi di arachidi, scorze di arancia candite, ciliegie candite, granella di pistacchi. Lavorate la ricotta: mettetela a scolare in modo che perda il liquido in eccesso. Schiacciatela con la forchetta e incorporate lo zucchero. Appena il composto sarà ben amalgamato lasciatelo riposare in frigo per un paio d’ore. Poi passatela al setaccio e aggiungete il cioccolato.
Per l’impasto
Mettete in un pentolino l’acqua con lo strutto, aggiungete il sale e dopo che il liquido giunge ad ebollizione, versate in una volta sola tutta la farina. Mescolate fino a ottenere un composto omogeneo che si staccherà dalle pareti. Fate raffreddare.
Unite un uovo per volta, attendendo prima di aggiungere il successivo, che il precedente sia già incorporato. Dovrete ottenere un impasto liscio.
Scaldate a parte in un pentolino l’olio di semi di girasole a una temperatura di 160-165°, poi friggete l’impasto versandolo a cucchiaiate. Rigirate spesso le frittelle, fatele dorare e gonfiare bene. Dovranno cuocere per almeno 10 minuti. Appena pronte, fatele raffreddare.
Spalmate di crema di ricotta la parte superiore della sfincia, se preferite potete anche farcirla all’interno. Decorate con della granella di pistacchi ,una ciliegina candita e una scorzetta di arancia candita e zucchero a velo.
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