MISTERI E LEGGENDE
Quando la vita a Palermo scorreva in strada: dalla trombetta alla semenza ecco com'era
A differenza di oggi, un tempo la strada era un luogo dove i grandi socializzavano mentre i ragazzi giocavano, fra divertimenti e lavori che non esistono più
Il Foro Italico di Palermo agli inizi del '900
Nel centro storico, davanti le porte di casa si riunivano le massaie, stendevano i panni o stendevano il pomidoro al sole. All’imbrunire gli uomini, con tavolini improvvisati, giocavano a carte, magari bevendo qualche bicchiere di vino.
Il sabato, le massaie che abitavano nei catoi facevano le grandi pulizie uscendo fuori i vecchi mobili. La strada era anche il luogo dove si trovavano anche le botteghe dei fruttivendoli, salumai, cranchieri (macellai). Ognuno svolgeva le varie fasi del lavoro preparatorio all’aperto.
Anche gli spazi enormi erano usati per preparare il lavoro: sul larghissimo marciapiedi della Marina si usava salare ‘a simenza (semi di zucca). Lo stesso avveniva alla Kalsa oppure a Piazza Magione. Anche i pescatori utilizzavano questi luoghi per stendere le reti al sole o ripararle.
Fino al 1914 poche macchine circolavano per la Città e usavano come garage le vecchie rimesse delle carrozze. Attraversare la strada da un marciapiedi all’altro non era pericoloso. Le macchine erano dotate di una trombetta che segnalava l’arrivo. Il fondo stradale era pessimo, la Strada Nuova (Via Maqueda) ed il Cassaro (Via Vittorio Emanuele) erano lastricati con lastre di ciaca (pietra) che facilmente si deteriorava al passare dei carri e carrozze, formando grosse pozzanghere.
La Via Libertà, da qualche anno era stata asfaltata fino a Piazza Croci, mentre gli altri stradoni avevano la carreggiata di pietrisco pressato con lo scacciapietre, una locomotiva a vapore con un grosso e pesante rullo metallico, per questo motivo le strade erano impolverate in estate e melmose in inverno.
Dalle grandi piazze si allargavano gli stratuna (stradoni, fiancheggiati da ampi marciapiedi. Anche allora la pulizia lasciava molto a desiderare. La spazzatura veniva lanciata dentro sacchi dai balconi o depositata accanto la porta o portone. Gli animali da soma compievano i loro bisogni fisici sulla strada che veniva ripulita ogni mattina dai contadini di borgata che facevano gli spazzini ed dai “munnizzari” Comunali.
I primi camminavano con una scopa ed una carrettella , i secondi con una pala e un carretto con un gran cassone dipinto di color grigio con il coperchio. La pulizia della strade veniva effettuata in modo soddisfacente. Il Cassaro, la Via Maqueda e le strade principali venivano arruciate (bagnate) ogni notte con poderosi getti d’acqua.
Nei mesi estivi, questa operazione avveniva anche di giorno. L’acqua era un bene abbondante, le fontanelle pubbliche la erogavano senza interruzione ed era a disposizione di tutti. Anche coloro che avevano l’acqua corrente in casa ne usufruiva all’ora dei pasti.
I negozi avevano la porta oppure un portoncino che si apriva all’esterno, poche erano le saracinesche. La sera, appena chiudevano i negozi, la luce della Città diminuiva, rimaneva soltanto qualche pallido lampione a gas e rare erano quelle elettriche (davanti le caserme, ospedali, alberghi).
Poche erano le abitazioni e con l’illuminazione elettrica, un tratto della Via Maqueda, dai Quattro canti sino alla Stazione Centrale, aveva i lampioni elettrici. Per le strade circolavano molte biciclette e qualche motocicletta. I Tram elettrici si apprestavano a sostituire l’omnibus a cavallo. Erano specie di piccoli vagoni di ferro, larghi circa due metri e mezzo e lunghi circa otto metri, ricoperti da una tettoia metallica mentre i fianchi erano scoperti.
Nel 1914, i palermitani avevano a disposizione sette linee di omnibus e dodici di tram elettrici che giungevano sino a Mondello, Sferracavallo, Torrelunga etc; c’era anche la funicolare per Monreale. Il Tram era spesso seguito da un rimorchio. Nei tram i sedili erano due fronteggiati in senso longitudinale. C’erano le fermate obbligatorie e quelle facoltative. Arrivato al capolinea, il conduttore ribaltava la tabellina posta in alto sul frontone anteriore. C’era anche “‘u papuni”, una specie di diligenza o carrozzella trainato da cavalli, munito di tendine pendenti sui quattro lati.
La città era dotata di alcuni tempietti metallici denominati Vespasiani, non era una bella vista ma erano utili, altri erano appoggiati direttamente al muro. Erano utilizzati soltanto dagli uomini. Un altro servizio pubblico gratuito era la segnalazione del mezzogiorno. Allora pochi erano gli orologi da polso, si usava quello da taschino (cipollone). Tra gli orologi posti sui campanili della Città, quello che probabilmente era il più esatto, quindi, il più osservato dai palermitani, si trovava sulla sommità interna di Porta Nuova ed aveva una peculiarità: era composto di una semplice tela bianca.
Ogni giorno, all’approssimarsi del mezzogiorno, migliaia di persone, col naso all’aria ed il “cipollone” tascabile in mano, si fermavano ad osservare il lato orientale di Porta Nuova, con totale fiducia la precisione cronometrica dell’invenzione denominata: “a calata r’a tila” (il calo del telo): un grezzo telone di canapa che allo scoccare del mezzogiorno si alzava per incanto. Ogni giorno, poco prima delle ore dodici, tramite un ingegnoso sistema, era abbassato davanti all’aquila senatoria un panno molto più grande di un lenzuolo.
Poi, quando dal vicino osservatorio astronomico, arrivava la certezza del mezzogiorno, un solerte impiegato comunale azionava la molla che in un attimo riportava la tela ad avvolgersi dentro il proprio alloggiamento. In realtà, accadeva che un meccanismo collegato con un pendolo all’osservatorio astronomico, a mezzogiorno metteva in funzione questa specie di “rito”. Questa antica usanza, stabilita a metà del 1800 con lo scopo di coordinare gli orologi ad ora solare durò sino alla Seconda Guerra Mondiale.
Anche i bambini giocavano per strada. I giochi erano molto poveri, fatti in casa ma erano felici nonostante la povertà. Le bambine giocavano tra loro, altrettanto facevano i maschietti.
La mattina presto si sentiva l’abbanniata del ‘u panillaru; poi quella del ‘u passalittra (postino), ‘u carbunaru (venditore di carbone), ‘u piatti e pignati (riparatore di piatti epentole), l’uvaru (venditore di uova), nel pomeriggio passava ’u luppinaru (venditore di lupini), ‘u cevusaru (venditore di gelsi) ‘u siminzaru (venditori di semi da mangiare), gli strilloni che vendevano il giornale locali e quelli continentali (ogni sette giorni).
I fruttivendoli ambulanti circolavano tutto il giorno e facevano sentire la loro voce. C’erano poi i venditori che venivano dai paesi: ‘u Murrialisi (abitante di Monreale), ‘u Sferracavaddaru (abitante di Sferracavallo, vendeva scope o pesci), Parchitanu (abitante del Parco, oggi Altofonte, vendeva fichi) etc.
Le strade erano vive. Il rumore delle carrozze, il vocìo delle persone, l’abbannìari dei negozianti era uno spettacolo che oggi possiamo soltanto immaginare.
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