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Non si capiva se era nobile o maggiordomo: chi era il famoso conte Cappello di Palermo

Veniva preso per pazzo mentre si dedicava alle sue passeggiate cittadine, ma quest'uomo nascondeva un potere intimo: quello della libertà interiore

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 19 ottobre 2020

René Magritte "Le Pélerin" (particolare)

Diciamoci la verità, calia, simenza e pazzi a Palermo non ne sono mancati mai, in tutte le ere e in tutte le borgate. C’è un bellissimo libro di Roberto Alajmo intitolato “Repertorio dei pazzi della città di Palermo” che tratta proprio l’argomento e che è una specie di censimento unofficial di tutti questi pittoreschi personaggi che, ancor più pittorescamente, in Sicilia, sono sempre stati inseriti nelle categorie: u scimunito ra via chi, o della via come, oppure u babbo ru paisi, se non addirittura chiamati per nome o soprannome perché ormai erano divenuti veri e propri vip.

In pratica, se a Hollywood ci sono le stelle per terra per i divi dello spettacolo, l’intera Palermo è una vera e propria Walk of fame ri pazzi, scioccati e colpiti in testa. Tra tutte le parole che nella storia hanno subito variazioni di significato la parola “pazzo” è quella che più di tutti detiene lo scettro della soggettività.
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Se anticamente questo marchio era altamente squalificante, tanto che non pochi pazzi furono mandati al rogo, oggi, o almeno ultimamente, la follia ha finito per assumere significati opposti se non arbitrari. E guai a dimenticare la vera pandemia scoppiata per colpa del film “Alice in Wonderland” quando per colpa del cappellaio matto interpretato da Johnny Depp, ci siamo dovuti fare le flebo a causa dell’ondata di link condivisi sui social a proposito della follia: “a questa normalità preferisco la follia… metti due folli assieme e il mondo sarà migliore… nella follia c’è un piacere che solo i pazzi conoscono…” e tutta una lista infinita di minchiate col botto di questo genere che ci siamo dovuti assuppare per anni.

Tutto questo per non parlare degli archivi denominati x-files dove sono enumerati casi di avvistamenti di gente che condivideva link sulla follia con le foto di Rosy Abate. Tra tutti questi variopinti personaggi, ancora vivi nei ricordi dei palermitani, e raccontati egregiamente da Alajmo, uno su tutti merita di aver puntato addosso i riflettori: il conte Cappello.

Il personaggio in questione, meteora degli anni '60 e '70, molto probabilmente oggi sarebbe un “nuddu ammiscatu cu nienti” nel senso che passerebbe, probabilmente, completamente inosservato. Aldo, si chiamava, meglio conosciuto come conte Cappello.

Siccome niente come la miseria è legata all’anonimato, c’è da dire che tutto quello che sappiamo è frutto di racconti popolari di strada. Abitava in via Pitrè e non si è mai capito se fosse veramente un nobile, un maggiordomo o niente di tutto questo.

Che era persona splendida nessuno lo ha mai messo in dubbio, si vedeva di fatti passeggiare ben vestito con la chioma bionda, bigodini ai lati e, come diciamo noi: l’acqua lo bagnava e il vento lo asciugava. Io già mi immagino le flotte di arche di scienza che ogni volta che lo vedevano passare si lasciavano andare a commenti che a Palermo sono come la caponata o l’insalata di musso: “conte della min…”, “Alduzza, ma che ti sei fatta la pelliccia di pelle di topo?”, e vedi scorrendo…

Si racconta pure che fosse omosessuale: io sta cosa non l’ho mai capita. Ricordo una volta che partecipando a un convegno all’università ci fu una professoressa che disse: “Io mi chiamo Cazzi & Mazzi e sono omosessuale!”, come se questa cosa dovesse in qualche modo essere destabilizzante… Cioè, vengo e mi spiego, dovrebbe appartenere alla categoria “ogni testa è tribunale” e ognuno è libero di preferire la pasta con le sarde alla pasta con l’anciova.

Ma voi ve lo immaginate uno che a un convegno dice mi chiamo Cazzi & Mazzi e mi piace la pasta con l’anciova? Comunque, Aldo conte Cappello, faceva scalpore e questo è quello che conta. Il conte di Cappello era semplicemente un povero cristo che faceva quello che si sentiva di fare, vestiva a comegghiè e usciva con i bigodini come fanno le casalinghe in America; questo suo ostentare il precetto secondo la quale “cu si fa i pazzi sua, campa cent’anni” sembrava aver dato più fastidio di quanto lo stesso concetto di libertà personale potesse rappresentare.

Oggi il conte Cappello non c’è più, ma ci sono tanti altri pazzi, untori, colpiti in testa, o semplicemente gente che vuole vivere senza preoccuparsi del giudizio altrui, che girìano Palermo Palermo tutti i giorni: la lista dei pazzi, potremmo dire, è infinita. Il mio preferito, per esempio, è uno che legge tutti i miei articoli dicendo agli altri di non leggerli; però, facendo questo, passa tutta la giornata sui miei articoli correggendomi la punteggiatura e gli errori di battitura e contestando gli argomenti: come si fa a non volergli bene?

Forse il conte Cappello si fece pure questo conto: “che ne parlino bene o male non conta, quello che conta è che parlino”; perché in fondo a Palermo funziona così: “Pu ‘ncurnutu, curnutu e mienzu!”, cioè, tradotto, “visto che è così, io lo faccio ancora più di proposito”.

Per fortuna con la legge Basaglia del 1978 i manicomi sono stati chiusi, ma per sfortuna tutti pazzi, quelli veri, si sono trasferiti su facebook. Aldo negli anni in cui ha vissuto non le conosceva tutte ste cose, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto fare shopping da H&M, da Zara e farsi un aperitivo alla Vucciria, anche se magari la frequentava negli anni in cui Guttuso, nel 1974, tirava fuori l’omonimo capolavoro.

C’era un grandissimo filosofo francese, Michelle Focault, molto caro a Umberto Eco, che diceva: «La psicologia non potrà mai dire la verità sulla follia, perché è la follia che detiene la verità sulla psicologia». Per concludere, quando si dice che Palermo sia una città multiculturale non è mai solo riferito ad arabi, normanni, ebrei o tricche e ballache, ma si fa riferimento sopratutto al fatto che due bigodini in testa, un frack, come nel caso del conte Cappello, non hanno fatto mai peggio di una giacca e una cravatta.

Amava fare avanti indietro per via Libertà, Aldo, forse non era la sua via preferita, ma il nome “Libertà” valeva certamente il prezzo della passeggiata tra le risa della gente.
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