STORIA E TRADIZIONI
Non è una questione di pelle ma di storia: perché a Palermo diciamo "pari un turco"
Lo usiamo in diversi modi di dire e in più contesti. La sua origine risale a quando gli arabi sbarcarono in Sicilia ma l'uso definitivo nel parlato è legato a un altro popolo
Porta Nuova a Palermo, perfezionata nel 1583 dal viceré per celebrare la vittoria sulle armate turche
Onestamente non avevo mai toccato né acceso una macchina professionale da caffè in vita mia, ma allo “store manager” ci attigghiava più il fatto che fossi italiano e si sentisse nella mia pronuncia anche la mia reale preparazione nel campo. Quando si è "giovini" tutto va bene, per cui me l’accollai, pur con tutte le pecche del caso, compresa quella di servire ad un tavolo una porzione di tiramisù che precedentemente mi era caduta a terra pur di non averla addebitata sul mio stipendio.
Quel marasma mi diede l’opportunità di conoscere Fathi, un ragazzo del Marocco arrivato a Londra con il mio stesso identico pensiero, che mi fece da mentore sull’utilizzo di quella macchina infernale steampunk del caffè/cappuccino con la quale mi ustionai almeno una decina di volte.
Da bravo siculo li portai nei posti più caratteristici e tasci della città, anche perché lui, al pari di me, apprezzava certe chicche. Fu proprio durante una passeggiata al Capo che la ragazza di Fathi mi pose la fatidica domanda: «Alex, sorry, but why does everyone here call us Turks? We are not Turks». Ecco, va spiegaccillo ora come mai in Sicilia ogni persona un po’ scura di carnagione è turco!
Pure a me, essendo scuro di carnagione, era stato detto più volte «pari un turco!» e così, dato che già si era fatta l’ora della pinta di birra, favolosa usanza inglese che dovremmo importare anche qui da noi, ci sedemmo in un locale e provai a spiegare.
Per i più polemici… - schermitevi picciotti -, Fathi nonostante fosse “turco” beveva alcol e mangiava carne, al pari dei cristiani che il venerdì mangiano lo stesso la carne anche se non dovrebbero o, molto più semplicemente, come quelli a cui della religione un ci ni futti nienti.
In effetti, qui in Sicilia, il termine “Turco” lo includiamo in diversi modi di dire.
Quando ci si vuole abbronzare diciamo sempre: «Addivintari nivuru come un turco!», oppure per quelli che lasciano la legittima dal tabaccaio «fumi come un turco!», ma il termine turco lo trasponiamo anche in pasticceria, infatti aviemu u salame turco e, maliziosamente, il cannolo turco o africano, e quando ci si brucia una pietanza diciamo che «è venuta turca».
Occorre andare indietro fino all’827, periodo in cui gli arabi sbarcarono in Sicilia. Ai tempi, l’impero arabo non è che fosse proprio un cocci i tacca, anzi, comprendeva, senza mettersi a fare i pillicusi, la maggior parte dell’Africa settentrionale, l'India, l’attuale Andalusia e tutta la Penisola Araba compresa la Turchia, avendo così, all’interno del proprio impero, gente dalle etnie più variegate.
Per questo motivo i siciliani vedendosi arrivari tutti sti masculazzi dai diversi tratti somatici, iniziarono a chiamarli sì Arabi, ma anche Mori, Saraceni e Turchi. L’ identificazione definitiva del turco come persona dalla pelle scura potremmo farla risalire, sappiamo che il condizionale è sempre d’obbligo, all’impero ottomano, uno dei più vasti e variegati mai esistiti.
Gli ottomani, che non sono persone con 8 mani ma più semplicemente i turchi, sotto la guida di Solimano il Magnifico, che aveva scagghiuna belli affilati, ingrandirono sempre più l’impero fino ad arrivare a tuppuliare, ahimè a mani vacanti, alle porte della terra sicula.
I siciliani la pigliarono come un’offesa tutto questo, picchi si sa che quando vai a casa di autri cristiani sav’a tuppuliare sempre con i piedi, per cui non li fecero entrare. Insomma, non potendo l’esercito ottomano conquistare la Sicilia, furono i pirati della stessa nazionalità a cominciare a fare scorrerie lungo la costa sicula, con saccheggi, razzie e prigionia di uomini e donne da rendere schiavi, al punto che fu coniato il modo di dire, ancora attuale, «sentirisi pigghiato ri turchi».
Testimonianza di queste scorrerie piratesche sono, ancora oggi, le varie torri di avvistamento sparse lungo la costa, dalle quali venivano accesi grossi falò per avvisare dell’arrivo dei pirati. Il carrico ri unnici arrivò nel 1700 quando un evento particolarmente cruento e sanguinoso sconvolse Palermo.
Una nave diplomatica ottomana, composta per la maggior parte da equipaggio dalla pelle scura, approdò a Palermo e gli esponenti, con il loro seguito, furono invitati nel palazzo della famiglia Palmieri di Miccichè. Purtroppo nel corso della visita, un soldato della scorta decise di importunare malamente una donna del palazzo, che fu salvata dalle guardie attirate dalle urla.
L’ammiraglio della nave fece punire severamente con la morte il soldato, ma nonostante tutto, quella sera stessa un gruppo di pirati vagò per la città stuprando diverse donne. Ora il popolo palermitano, che li aveva belli vunci, decise che la misura era colma e, immaginando che tali pirati fossero turchi della flotta arrivata, fecero una vera e propria caccia all’uomo, identificandoli come un nemico feroce e senza scrupoli, anche se poi non era realmente così.
Così nella fantasia popolare rimase l’immagine del “turco” brutto, sporco e cattivo, soprattutto in relazione ai pirati, al punto che fino a non pochi anni fa, per intimorire i bambini che facevano la malaminnitta gli si diceva che sarebbe venuto u Mammadrau a pigghiarisillo.
In realtà u Mammadrau era un pirata realmente esistito di nome Mohamed Al-Dragut, già signore di Tripoli e Medeha, nonché vicerè di Algeri. Fu famigerato per la sua ferocia e crudeltà quale re incontrastato della pirateria nel Mediterraneo, divenendo una leggenda oscura al punto di essere uno spauracchio per i bambini.
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