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"Zoo", l'ossessione di una scrittura di rivolta

  • 27 marzo 2006

Sembra il personaggio di una sinistra opera teatrale Isabella Santacroce, quando in perfetto dark look e provvista di maschera fa il suo ingresso alla libreria Mondadori di Palermo, seguita dagli sguardi curiosi degli affezionati lettori. Edita dalla casa editrice dell’altrettanto chiacchierata Melissa P., la scrittrice propone il suo ultimo lavoro “Zoo” (Fazi Editore, Euro 12,50), storia ossessiva che non permette facilmente di riporre il libro dopo averlo iniziato, di quelle che si leggono in una notte. Dopo l’esordio nel ’95 con il primo romanzo “Fluo”, la promettente romagnola non ci mette molto a far notare la sua forte personalità letteraria, oltre a non passare di certo inosservata per il suo mostrarsi in maniera eccentrica. In seguito sarà la Feltrinelli a pubblicarle le due successive opere fra cui “Luminal”, dal quale nascerà l’omonimo film girato a Londra e a Parigi, ma impossibile da vedere in Italia perché censurato, mentre i romanzi precedenti a “Zoo” (tra cui il molto apprezzato “Revolver”) porteranno la firma Mondadori. «La scrittura è rivolta», sostiene la Santacroce, e la sua, passionale e a tratti violenta, è sicuramente emozionale e dotata di un personale spessore, tanto da lasciare difficilmente indifferente, nel bene o nel male, chi si imbatte in uno dei suoi lavori. Attraverso parole che sono immagini il ritmo creato in quest’ultimo romanzo è di quelli che fanno danzare i pensieri, e se l’obiettivo è, citandola ancora, quello di «dar luce alle zone d’ombra dell’esistenza e mostrare ciò di cui ci si vergogna», il libro rende perfettamente il concetto.
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Chiusi in una gabbia che è la loro vita, i tre protagonisti sono un padre, una madre e una figlia senza nome, estremi nell’esternare i loro bisogni e le loro debolezze, in un gioco perverso che arranca nel voler apparire amore. Un amore che è morboso e a tratti perverso, una musica costante e ossessiva che diventa assenza di alcun punto di riferimento - qualcuno dei presenti dirà di morale - ma sarà presto controbattuto dall’autrice con la bella frase controcorrente: «Cos’è la morale?». Tra ricordi altalenanti, il lettore sembra essere trascinato nella mente di questa ragazza che racconta il suo mondo da dietro le sbarre di un’esistenza in prigionia; dall’infanzia all’adolescenza alla giovinezza, il percorso seguito è del tutto periferico ed estraneo da quello dei suoi coetanei, da quello della vita che molti pensano possa essere uguale per tutti. Per la prima volta alle prese con una storia realmente accaduta, Isabella racconta quanto siano stati difficili i dieci mesi di buio in cui ha deciso di dar vita a questa «verità», di buio perché il libro è stato “concepito” interamente di notte, dopo aver atteso che si spegnessero le ultime televisioni degli appartamenti vicini, e la scrittrice sottolinea la fatica soprattutto mentale di diventare la protagonista , ovvero quella figlia, la ragazza da cui ha appreso questa storia, di tradurne le emozioni: «E’ un libro che ho scritto senza colonna sonora, non ci sono riuscita, ho scritto per la prima volta un libro nel silenzio, e la voce della protagonista è diventata la mia musica». L’autrice ha una maschera ma non copre gli occhi, e dietro quell’armatura in nero c’è una tale pacata dolcezza che spiazza chi teme che il personaggio voglia prevalere su tutto, anche se il dubbio resta e va concesso. E quando inevitabile arriva la domanda sul perché ci si abbigli in questo modo con tanto di volto semicoperto la risposta è: «Perché la realtà così com’è non mi piace».
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