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Uno scherzo di ottimo gusto: il cannolo

Si dice “Belli i tempi andati” o “Si stava meglio quando si stava peggio”. Ma avete presente cosa doveva significare vivere in quei guazzabugli, in cui non c’erano le basilari condizioni igieniche, in cui non c’erano comodità, in cui si moriva ri friddu? Per non parlare degli innumerevoli soprusi a cui si era destinati se non si faceva parte della piccola cerchia di nobili e nobilotti, che deteneva il potere. Un supplizio, che aveva un unico momento di svago: il Carnevale. L’origine di questa ricorrenza è assai remota, sembra derivare dalle feste pagane in onore a Dioniso. L’etimologia del nome è controversa, alcuni sostengono che significhi sollievo della carne, altri che faccia riferimento al dispendio di energie, causato da un aumento “dell’attività fisica” e quindi all’utilizzo di tutte le provviste di carne, altri ancora che sia un saluto alla carne, prima della penitenza quaresimale. Festa della licenziosità, in cui tutto era permesso, in cui cadevano barriere sociali, vincoli, non esistevano più regole. Addirittura i padroni si prestavano a servire i loro servi. Almeno una volta l’anno! Una rivoluzione comunista anzi tempo. Le prime notizie sul Carnevale in Sicilia sembra rimontino al XVI° secolo, ma i festeggiamenti più famosi per sfarzo, ricchezze ed eccessi sono quelli del XVIII° e XIX° secolo, in cui si costruivano carri allegorici, riprendendo la tradizione greca. Due le figure che si prendevano gioco di tutti, potenti, clero, medici, storpi, che incarnavano i mali, i dolori dell’anno trascorso: ‘u Nannu e ‘a Nanna. Vestiti di cenci, con salsiccie al posto dei rosari e vino al posto dell’acquasanta, venivano bruciati al rogo, in nome della purificazione con il sacro fuoco alla fine delle processioni. Anche in cucina ci si beava di questo momento di rilassatezza, creando dolci che potevano stimolare delle associazioni divertenti, dei veri scherzi culinari.

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È il caso di uno dei dolci più famosi della nostra pasticceria, quello che rappresenta la sicilianità: il cannolo. Inventato, come sostengono alcuni, dalle donne dell’harem dell’emiro di Caltanissetta, ha la forma di una canna di fontana, da cui esce non acqua, bensì ricotta. Altri invece affermano che sia nato a Palermo, per opera delle suore del Convento di Santa Caterina. Qualunque sia l’origine, l’importante è che c’è! Il rimando al simbolo fallico non è celato, persino un sacerdote nel XVII° secolo, magnificando il dolce, lo definì “scettru ri re e virga ri Moisè”. In effetti ne aveva ben donde. Di magnificarlo, intendo. Prepararli non è difficile, l’unica camurria è l’estrazione della cialda dalla canna dopo la frittura. Ma procediamo con ordine. Per fare le scorce bisogna impastare 200 gr di farina con 20 gr di strutto e 30 gr di zucchero, un pizzico di sale e due, o più, cucchiai di marsala secco, a seconda della consistenza della pasta, che deve essere compatta. Una volta pronta la si fa riposare per un’ora, avvolta in una mappina. Nel frattempo si prepara la crema. Si strizzano 800 gr di ricotta con l’aiuto di uno strofinaccio, si mettono in una scodella e si lavorano con 350 gr di zucchero, finché quest’ultimo non si sia sciolto, mescolando con un cucchiaio di legno, poi si aggiungono 200 gr di scaglie di cioccolato fondente. Si riprende la pasta e la si stende fino a ottenere sottili sfoglie, che andranno tagliate a forma circolare. Questi tondi di pasta verranno avvolti attorno ai cilindri di alluminio o di canna di circa dodici cm e verranno fritti nello strutto, in un pentolino dai bordi alti. Infine estratti con delicatezza e riempiti con la crema, spolverati con lo zucchero a velo e decorati con le bucce di arancia candita. Le dimensioni sono varie: alcuni amano quelli palermitani, grandi quanto un dito, altri preferiscono quelli grandi di Piana degli Albanesi, un tuffo nel piacere, o quelli di Dattilo, che ti ostruiscono la vista quando li porti alla bocca. A me vanno bene tutti, piccoli, grandi, medi, palermitani, messinesi, nisseni, purché siano freschi, croccanti e grondanti di sublime crema bianca.

L’abbinamento
Tra i dolci della pasticceria siciliana, i cannoli sono sicuramente tra i più rappresentativi e famosi. Dopo il primo assaggio, le sensazioni gustative maggiormente riscontrate sono varie: la ricotta che ne costituisce il condimento colpisce il palato, oltre che per la sua dolcezza, anche per la grassezza che conferisce; la scorza, da parte sua, contribuisce ad arricchire il piatto con l’aromaticità che porta con sè. Il compagno di viaggio dei nostri cannoli deve essere quindi un vino dolce e con un tenore alcolico adeguato alla loro struttura. Tra i vini in commercio la soluzione ideale sembra essere il Malvasia delle Lipari, tra i più antichi e pregiati vini di Sicilia. Celebre è la descrizione fornitaci dal grande romanziere francese Guy de Maupassant, “Sembra sciroppo di zolfo. È proprio il vino dei vulcani, denso, zuccherato, dorato e con un tale sapore di zolfo che vi rimane al palato fino a sera: il vino del diavolo”.

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