CINEMA E TV
Tornano i pirati dei Caraibi, più smargiassi che mai
Pirati dei Caraibi: La maledizione del forziere fantasma
(Pirates of the Caribbean: dead man’s chest)
U.S.A., 2006
di Gore Verbinski
con Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley
Una baracconata, ma nel senso buono. Del resto è proprio da lì che comincia la storia di “Pirates of the Caribbean”, da una famosa attrazione dei parchi a tema Disney. È rimasto poco o nulla della giostra originaria, giusto il cagnolino che aiuta i pirati a sgattaiolare fuori di prigione e che anche in questo secondo capitolo occupa un ruolo determinante (occhio ai titoli di coda se non volete perdervi una gustosa scenetta).
Jerry Bruckheimer, produttore dal fiuto invidiabile – che di solito realizzi film pessimi è un altro discorso, però da lui dipende gran parte dell’attuale immaginario americano, da “Beverly Hills Cop” a “CSI” – ha fatto della saga di “Pirati dei Caraibi” (una trilogia? Il terzo episodio è già quasi pronto, ma è facile credere che i seguiti non si fermeranno finché gli incassi continueranno ad arrivare) un carosello cartoonesco e tecnoludico, messo insieme soltanto con pezzi di prim’ordine: star di lusso (il triangolo Depp, Bloom e Knightley), una sceneggiatura leggera e brillante (dagli autori di “Shrek” Ted Elliott e Terry Rossio), gli effetti speciali migliori (quelli dell’Industrial Light and Magic di George Lucas) e la sicurezza che può fornire solo il marchio Disney Buena Vista in termini di merchandising.
Il seguito invece acquista toni decisamente neobarocchi. Barocco è il trucco sempre più pesante ed eccentrico di capitan Jack Sparrow, soprattutto quando viene agghindato come una divinità da una tribù di indigeni cannibali: quattro paia di occhi finti sulla faccia, un copricapo sghembo ricolmo di piume e un improbabile spolverino a fare da scettro. Barocco è il look immaginifico ed estroso della ciurma di Davy Jones, curiosi ibridi tra uomini e animali marini: lo stesso Jones ha una testa da polpo che brulica di tentacoli, ma c’è anche il pesce martello, la conchiglia, il granchio, via via fino a esaurire ogni possibile combinazione ittica. Barocca è la costruzione delle fughe e degli inseguimenti: rocamboleschi e arzigogolati, si sviluppano sempre in contesti insoliti e seguono traiettorie fantasmagoriche, dall’entrata in scena di Jack dentro una bara, alla corsa attraverso gigantesche gabbie circolari, al duello sopra una turbinosa ruota da mulino.
Il film di Verbinski è un vortice marino che risucchia senza ritegno tutto quel che gli si para dinanzi, un mostro tentacolare – come il mitologico Kraken che nel film si avventa contro la Perla nera di Sparrow – che avviluppa tra le sue spire uno sterminato immaginario di successo. Vi si trova dentro non solo tutto il repertorio piratesco e la sua rivisitazione parodica (oggetto, ad esempio, del videogioco capolavoro “Monkey Island”, non a caso prodotto da Lucas), ma anche, citando a casaccio: le scogliere a picco che sembrano rubate dall’isola di “King Kong”, il mostruoso organo del “Fantasma dell’Opera” suonato dai tentacoli di Davy Jones, un mexican standoff (termine che indica quando due o più persone si tengono sotto tiro a vicenda con delle armi) realizzato con le spade, che viene dritto dai film pulp.
Ma il modello di riferimento – lo ripetiamo: senza fare accostamenti di natura sacrilega – è soprattutto “Star Wars”: “La maledizione del forziere fantasma” termina in fieri esattamente come “L’impero colpisce ancora”, con un personaggio importante in bilico tra la vita e la morte. Gli avvenimenti si amalgamano bene con quelli dell’episodio precedente, la relazione tra Will ed Elizabeth si sviluppa e si complica ulteriormente (con Sparrow a fare da terzo incomodo) e alcuni vecchi personaggi riappaiono sul più bello. Una baracconata, insomma, fracassona e furfantesca. Tutto sta nel voler farsi raggirare da un manipolo di mascalzoni con la gamba di legno e la benda nell’occhio…
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