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Quell'amore sospeso della casa sul lago

  • 28 giugno 2006

LA CASA SUL LAGO DEL TEMPO (The Lake House)
U.S.A., 2006
Di: Alejandro Agresti
Con: Keanu Reeves, Sandra Bullock, Dylan Walsh, Shohreh Aghdashloo, Christopher Plummer

Parafrasando una celebre canzone, la lontananza, come il vento, non fa bene all’amore vissuto a distanza. Ogni rapporto rischia di marcire, di perdere la sua concretezza. Ma anche la solitudine è una irresistibile tentazione. E una suggestiva casa sul lago è il luogo ideale per cercare se stessi, per sprofondare nell’oblio luminoso del passato. Una casa sul lago, progettata da un architetto come dono d’amore alla moglie e successivo rifugio quando l’amore si esaurisce, è la protagonista di questo film.

L’architetto famoso (Christopher Plummer) è il padre di Alex Wyler, anch’egli avviato sulla stessa strada, intenzionato a ristrutturare l’antica dimora per ritrovare la pace perduta. Kate Forester è invece una dottoressa che ha trovato lavoro in un affollato ospedale di Chicago, metropoli nella quale si è trasferita abbandonando la casa del titolo a nuovi acquirenti.

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Manco a dirlo, è Alex a trasferirsi nella casa, in un fatidico 14 aprile. Ma, a causa di una sfasatura temporale, lei si trova nel 2006 e lui nel 2004. Capirete bene come la corrispondenza tra i due lasci spazio ad un rapporto piuttosto complicato. E’ la cassetta della posta a funzionare come macchina del tempo. Per fortuna siamo in un film para-hollywoodiano e la storia d’amore, nonostante l’assurda distanza spazio-temporale, in qualche modo funziona.

“La casa sul lago del tempo” è insomma uno di quei filmoni neo-romantici che riporta sullo schermo, a distanza di ben dodici anni, Keanu Reeves e Sandra Bullock, che s’incontrarono sul set di “Speed”. La personalità tormentata di Reeves e l’aspra bellezza della Bullock (formidabile il suo sguardo di quarantenne!) ben si amalgamano in questa produzione che vede coinvolto per la regia l’argentino Alejandro Agresti in trasferta americana, e scritta dal commediografo “Pulitzer” David Auburn (lo stesso di “Proof”) come remake di un film sudcoreano del 1999, “Il mare”, del regista Lee Hyun-seung.

Quale sia la differenza tra i due film è presto detto. In quello di Hyun-seung Lee, innanzi tutto, la giovane protagonista è una doppiatrice e non una dottoressa e il "Mare” del titolo si riferisce alla casa sul lago, mentre nel film di Agresti è il nome di un lussuoso ristorante, luogo di un appuntamento del destino. Nonostante cambino i riferimenti temporali e l’assunto delle due storie sia lo stesso, i film si distinguono per intensità e impianto drammaturgico. La storia sembra alludere al tema di “Persuasione” (romanzo della Austen ampiamente citato nel film), straordinaria riflessione sull’ambiguità dell’Amore e del Tempo, sulla vanità delle vicende umane sottoposte al gioco del destino.

Viene pure in mente un film di Alan Rudolph, “Accadde in Paradiso”, un incontro avvenuto a trent’anni di distanza suggellava l’eternità di una love story. Ma in “La casa sul lago del tempo”, è il tempo interiore a farla da padrone, a trasformarsi in condizione metafisica buona ad alimentare uno struggimento amoroso che sconfina nell’enfasi dell’amore impossibile. Innumerevoli ed indimenticabili sono i melodrammi che questo motivo ha generato, nel corso della storia del cinema. Come l’ormai mitico, interminabile bacio tra Cary Grant e Ingrid Bergman in “Notorius” (citato direttamente nella pellicola di Agresti), organizzato da Sir Alfred Hitchcock in un suo raro concedersi alle vere passioni.

Della trama sudcoreana ritroviamo in questa versione le stesse emozioni un pò enfatizzate, sulla falsariga di “Ghost”, e la stessa fragilità di scrittura che provoca una certa erosione nel finale. I due amanti privi di tempo comune s’incontrano alla stazione senza percepirsi, poichè l’uno è due anni avanti rispetto all’altro: una sequenza che ricorda l’ambientazione nella subway del già citato blockbuster da Baci Perugina. Agresti, però, si distingue nel saper dirigere gli attori mentre è troppo timido a governare il debordante andazzo della trama che ogni tanto si affloscia pericolosamente.

Il ridicolo, anche se sfiorato, è comunque evitato. E a noi incuriosisce ascoltare nientemeno che Paolo Conte cantare “Chiamami adesso” in sottofondo alla scena dove la Bullock si attarda nel bar. Questa riflessione sul vuoto e sull’attesa che coincide con i movimenti dell’angoscia esistenziale avrebbe meritato più rigore e finezza per farcela apparire speculare all’emozione che tutti proviamo quando ci ritroviamo sospesi nell’afflato amoroso.

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