CINEMA E TV
"L'arco", l'afasia delle passioni secondo Ki-duk
L’arco (Hwal)
Corea del Sud/ Giappone, 2005
Di Kim Ki-duk
Con Jeon Seong-hwang, Han Yeo-reum, Seo Si-jeok
Il cinema di Kim Ki-duk continua ad esplorare i moti più segreti delle passioni umane, l’interiorità contemporanea perennemente esposta all’afasia e alla incomunicabilità forzata. Nel suo precedente “Ferro 3”, un giovane visita come un fantasma alcune abitazioni altrui, respirando l’odore di microcosmi familiari a lui prima sconosciuti. Ki-duk sembra votato a raccontare la moderna solitudine degli individui, la loro difficoltà di relazione. Il suo è un cinema fatto di metafore, di silenzi e di “fantasmi”. Il ragazzo di “Ferro 3” proietta il proprio vuoto esistenziale sul mondo circostante e sui propri rapporti, fino a coinvolgere una donna maltrattata dal marito in un’ardua storia d’amore. Di rispecchiamenti estremi tratta pure un altro suo film, “La Samaritana”, storia dell’amicizia tra una prostituta occasionale e una ragazza che presto diviene l’ombra dell’altra. Il tutto raccontato con una nitidezza assolutamente straordinaria. Kim Ki-duk è dunque uno dei grandi cineasti orientali di oggi: la sua visione del mondo è implacabile, il suo soffuso pessimismo è intriso di una malinconia poetica che lo rende ancora più tagliente, anche perché sorretto da un retrogusto degno dei più ispirati moralisti. Persino il paesaggio acquista in lui una dimensione umana: la casa galleggiante, situata al centro di un lago avvolto da un paesaggio montagnoso, di “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” è il simbolo dell’altro mondo che ci portiamo dentro, il luogo dell’anima dove si può alimentare il colloquio con noi stessi, il rifugio dalla sofferenza del mondo, travolto dalla guerra e dal sangue (il mondo che Kim Ki-duk racconta in “The Coast Guard”).
Questo piccolo, acquatico teatro delle passioni ha una sua scenografia suggestiva: sul dorso del peschereccio c’è un Buddha dipinto, icona dell’Oriente come l’hanbok (custodito in un baule), l’abito da sposa sudcoreano, come lo stesso arco dalla forma severa e sinuosa (maschile ed insieme femminile). Il film ci svela questi segni, spesso circolari ed ambigui, che richiamano gli archetipi delle fondamenta universali su cui sono basate le nostre passioni e i nostri pensieri. La parabola di Ki-duk rimanda a quella shakespiriana de “La Tempesta”, svelandone i lati più segreti: il vecchio de “L’arco” è come Prospero innamorato di Miranda, il suo è un amore purissimo e protettivo. E la giovane protagonista, col suo meraviglioso sorriso, ha gli stessi desideri della fanciullina di Shakespeare, di abbandonare la sua isola fatta di acqua per cominciare ad amare, rendendo concreto un legame che potrebbe farla risorgere. Il fisico e il metafisico si coniugano mirabilmente in Kim Ki-duk. Come in “Ferro 3”, i protagonisti de “L’arco” intrecciano un dialogo fatto di sguardi. Un dialogo che s’interromperà quando le pulsioni trionferanno, seppure con una metamorfosi spirituale, quando la ragazza perderà la propria verginità, in una sequenza di struggente bellezza, con conseguenze che non vogliamo svelarvi per non togliervi il piacere della scoperta di un film intenso e lieve come un gesto d’arciere. E’ un cinema, questo, che ci presenta una realtà trasfigurata, il più segreto dialogo tra l’umano e il divino, l’incessante ricerca di appagamento di una coscienza inquieta. La traiettoria dell’arco è ancora una prospettiva cinematograficamente perseguibile, ci insegna Ki-duk, e noi siamo disposti a guardare oltre con lui.
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