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"L'arco", l'afasia delle passioni secondo Ki-duk

  • 7 novembre 2005

L’arco (Hwal)
Corea del Sud/ Giappone, 2005
Di Kim Ki-duk
Con Jeon Seong-hwang, Han Yeo-reum, Seo Si-jeok

Il cinema di Kim Ki-duk continua ad esplorare i moti più segreti delle passioni umane, l’interiorità contemporanea perennemente esposta all’afasia e alla incomunicabilità forzata. Nel suo precedente “Ferro 3”, un giovane visita come un fantasma alcune abitazioni altrui, respirando l’odore di microcosmi familiari a lui prima sconosciuti. Ki-duk sembra votato a raccontare la moderna solitudine degli individui, la loro difficoltà di relazione. Il suo è un cinema fatto di metafore, di silenzi e di “fantasmi”. Il ragazzo di “Ferro 3” proietta il proprio vuoto esistenziale sul mondo circostante e sui propri rapporti, fino a coinvolgere una donna maltrattata dal marito in un’ardua storia d’amore. Di rispecchiamenti estremi tratta pure un altro suo film, “La Samaritana”, storia dell’amicizia tra una prostituta occasionale e una ragazza che presto diviene l’ombra dell’altra. Il tutto raccontato con una nitidezza assolutamente straordinaria. Kim Ki-duk è dunque uno dei grandi cineasti orientali di oggi: la sua visione del mondo è implacabile, il suo soffuso pessimismo è intriso di una malinconia poetica che lo rende ancora più tagliente, anche perché sorretto da un retrogusto degno dei più ispirati moralisti. Persino il paesaggio acquista in lui una dimensione umana: la casa galleggiante, situata al centro di un lago avvolto da un paesaggio montagnoso, di “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” è il simbolo dell’altro mondo che ci portiamo dentro, il luogo dell’anima dove si può alimentare il colloquio con noi stessi, il rifugio dalla sofferenza del mondo, travolto dalla guerra e dal sangue (il mondo che Kim Ki-duk racconta in “The Coast Guard”).

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L’acqua è l’elemento principale anche del nuovo film del regista, “L’arco”, presentato nella sezione “Un certain regard” del festival di Cannes di quest’anno. La terra è qui soltanto l’orizzonte (vicino eppure lontano) che la macchina da presa scopre ansiosamente, spesso dal punto di vista di un peschereccio abitato da un vecchio (Jeon Seong-hwang) e da una ragazzina (Han Yeo-reum). Il sessantenne protagonista è il proprietario dell’imbarcazione: la sua vita è scandita dai ritmi delle maree e dal rapporto con il suo arco, nelle sue mani divenuto non solo un’arma, ma un oggetto con il quale ci si può difendere dagli altri. Un oggetto, quasi musicale, che egli utilizza per proteggere la fanciulla dalle insidie dei pescatori che pagano l’affitto della sua barca. La fanciulla è completamente vergine rispetto al mondo: fin dall’età di sei anni, rimasta sola, è stata allevata dal vecchio che col tempo si è innamorato di lei aspettando il giorno del suo diciassettesimo compleanno per poterla sposare. Ma ecco che un giovane studente (Seo Si-jeok), venuto a pescare sull’imbarcazione, arriva ad innamorarsi della ragazza che, a sua volta, prova dei turbamenti fino ad allora sconosciuti. Nuove pulsioni amorose conducono la giovane a desiderare il colloquio con quel pezzo di mondo, oltre l’orizzonte, che le è stato negato. Il vecchio si accorge dell’inevitabile mutamento, la sua gelosia si accende fino a divenire ossessiva. A questo punto egli comincia ad usare i tipici atteggiamenti dell’innamorato tradito. In una scena lo vediamo legarsi intorno al collo una cima come gesto di sfida “estrema” rivolto al giovane studente che ha violato la sua intimità.

Questo piccolo, acquatico teatro delle passioni ha una sua scenografia suggestiva: sul dorso del peschereccio c’è un Buddha dipinto, icona dell’Oriente come l’hanbok (custodito in un baule), l’abito da sposa sudcoreano, come lo stesso arco dalla forma severa e sinuosa (maschile ed insieme femminile). Il film ci svela questi segni, spesso circolari ed ambigui, che richiamano gli archetipi delle fondamenta universali su cui sono basate le nostre passioni e i nostri pensieri. La parabola di Ki-duk rimanda a quella shakespiriana de “La Tempesta”, svelandone i lati più segreti: il vecchio de “L’arco” è come Prospero innamorato di Miranda, il suo è un amore purissimo e protettivo. E la giovane protagonista, col suo meraviglioso sorriso, ha gli stessi desideri della fanciullina di Shakespeare, di abbandonare la sua isola fatta di acqua per cominciare ad amare, rendendo concreto un legame che potrebbe farla risorgere. Il fisico e il metafisico si coniugano mirabilmente in Kim Ki-duk. Come in “Ferro 3”, i protagonisti de “L’arco” intrecciano un dialogo fatto di sguardi. Un dialogo che s’interromperà quando le pulsioni trionferanno, seppure con una metamorfosi spirituale, quando la ragazza perderà la propria verginità, in una sequenza di struggente bellezza, con conseguenze che non vogliamo svelarvi per non togliervi il piacere della scoperta di un film intenso e lieve come un gesto d’arciere. E’ un cinema, questo, che ci presenta una realtà trasfigurata, il più segreto dialogo tra l’umano e il divino, l’incessante ricerca di appagamento di una coscienza inquieta. La traiettoria dell’arco è ancora una prospettiva cinematograficamente perseguibile, ci insegna Ki-duk, e noi siamo disposti a guardare oltre con lui.

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