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L'addio a Randisi, caposcuola del jazz siciliano nel ricordo di tre generazioni

  • 5 marzo 2006

C’era davvero tutto il mondo del jazz siciliano e non solo, ma anche artisti che magari con il jazz hanno poco a che spartire, a rendere l’ultimo saluto ad Enzo Randisi, nella chiesa del Cimitero di Sant’Orsola a Palermo, dove i Duke Ellington Singers, gruppo vocale di sua ideazione, ha eseguito il suo arrangiamento di “The Shadow of your Smile”. Amici, musicisti, ma anche semplici appassionati jazzofili che con la loro presenza hanno testimoniato quanto il vibrafonista palermitano abbia lasciato in eredità al jazz, agli “allievi”, a quanti lo hanno conosciuto. Strana coincidenza, ma qualche giorno prima, a Roma, si è spento pure Romano Mussolini, altro grande jazzista della stessa generazione, con il quale Randisi aveva più volte condiviso numerose session. Il giovane Randisi aveva cominciato la propria avventura musicale con il trombone, per passare al piano ed altri strumenti prima di approdare definitivamente al vibrafono, grazie al quale ha diviso il palco con alcuni dei più grandi musicisti al mondo (vedi anche l’articolo "E' morto Enzo Randisi, il grande vibrafonista jazz").

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Lo scorso 16 gennaio Randisi aveva compiuto 71 anni, ma la cifra tonda dei 70, l’anno prima, era stata festeggiata “in jazz”, come si usa nell’ambiente, con un concerto in suo onore, tenuto al jazz club “Blue Brass” di Palermo, al quale avevano voluto dare il proprio contributo molti dei jazzisti siciliani, dai veterani alle giovani leve, accompagnando le note del proprio collega e maestro in un blues che durò circa due ore. E proprio a quella sera è legato il ricordo che di questo caposcuola del jazz siciliano dà Ignazio Garsia, presidente del Brass Group di Palermo, che condivise con Randisi le prime esperienze jazzistiche giovanili: «Tanti ricordi, ma i più belli vanno a quel 70° compleanno che volevo venisse festeggiato in maniera che ne restasse un ricordo. “I miei primi 70 anni” fu il titolo della serata, a testimoniare che Enzo era una forza della natura, faceva musica istintiva, ed il mio augurio, ospitando quel concerto, era che potesse continuare. Il mio rammarico, invece, è di non avere fatto in tempo a realizzare ciò di cui con Enzo si era tante volte discusso, una fondazione che riconoscesse una ribalta ai musicisti siciliani come lui. Quando venne la prima volta al “Blue Brass” ricordo che in una delle sue tipiche espressioni disse “Iu u lassu ccà u vibrafono, accussì ’un àiu bisognu di carriari” (“Lascio qua il vibrafono, così non ho bisogno di trasportarlo”) e, come tutti i musicisti, era molto geloso del suo strumento (il suo reca una targa con la scritta “Randy”, ndr). Ho sentito che la moglie Franca avrebbe intenzione di donare alla fondazione quel vibrafono, e se ciò avvenisse ne sarei oltremodo felice».

E aggiunge: «Quante estati passate da me a Cefalù, quando veniva a trovarmi. Una volta venne con un disco di Milt Jackson – il suo vibrafonista di riferimento: era emozionato e felice quando Jackson venne a Palermo in quartetto – ed in quel disco Jackson suonava insieme ad un’orchestra d’archi. Contagiato da quella musicalità, io, trovandomi sulla sua stessa lunghezza d’onda, mi entusiasmai tanto che quando per la prima volta mi venne commissionato un ciclo di concerti con orchestra sinfonica, al teatro Massimo di Palermo, pensai subito ad Enzo come solista: un’esperienza bellissima, lui adorava suonare accompagnato dall’orchestra, perché metteva in risalto il suono magico dello strumento. Altro suo riferimento era ovviamente Lionel Hampton, tant’è che uno dei suoi cavalli di battaglia era proprio “Stardust” nella versione di Hampton. Altro concerto indimenticabile – prosegue Garsia – fu la prima volta a Palermo di Patti Austin, la voce preferita da Quincy Jones. La Austin non stava bene, giunse in forte ritardo e non poté neppure provare con l’orchestra. Ed Enzo, ancora con una sua tipica espressione dialettale: “E ora chi cci calamu a chista?” (“E adesso cosa apprestiamo per lei?”)». Garsia negli anni settanta e ottanta girava in gruppo con Manlio Salerno, Pippo Cataldo, il batterista Gianni Cavallaro e Randisi, e proprio sul rapporto di odio-amore fra Randisi e Cavallaro, ricco di incontri-scontri epici, Garsia racconta: «Penso che fosse un gioco di rimandi, di cose riportate. Il giorno dei funerali Gianni (Cavallaro, ndr) salutandomi mi ha detto: “E ora cu’ ccu mi sciarriu?” (“E ora con chi litigo?”)».

Tantissimi i “ragazzi” che Randisi ha introdotto al jazz – Salvatore Bonafede, Stefano D’Anna, Mimmo Cafiero, nonché i propri stessi figli, il pianista Riccardo ed il sassofonista Beppe (tragicamente scomparso a seguito di un incidente stradale). Fra questi anche Giuseppe Milici, uno dei pochi armonicisti italiani ad avere rilievo internazionale fino a duettare con Toots Thielemans. All’inizio Milici si limitava a fare jazz in pub e clubini vari, quando fortuna volle che incontrasse Randisi: «Senza ombra di dubbio Enzo mi ha “iniziato” a questa carriera, insegnandomi tanto, e non solo musicalmente ma anche umanamente. Mi ha dato la possibilità di lavorare con numerosi musicisti di rilievo, quali Romano Mussolini e Lino Patruno, per cui gli devo molto. Non dimenticherò mai la sua prima telefonata, quella con cui mi chiamava a suonare con sé dicendomi: “Benvenuto nel mondo dei jazzisti!” La sua stima di grande musicista mi ha dato la forza di credere nelle mie capacità ed è stato per me lo “sparring partner” in grado di spingermi a salire sul palco, o, come amava dire lui, “scendere nella fossa dei leoni”, senza alcun timore e con tanta voglia di comunicare con il pubblico. Se oggi faccio questo mestiere, lo devo soprattutto a lui».

Fra le giovani leve che hanno calcato la scena musicale insieme al vibrafonista palermitano, uno degli ultimi da lui “svezzati” è il trentatreenne batterista Fabrizio Giambanco. «Suonare con Enzo – dice – era suonare con la tradizione, imparavo ogni giorno piccole cose ma nuove, quelle che fanno la differenza se a dirtele è uno come lui. Randisi era un pezzo di verità. La memoria va ad un concerto al teatro di Verdura, la scorsa estate, per me memorabile perché pubblicamente dichiarò che gli piaceva il mio modo di suonare, e che mi avrebbe portato con lui alla “Casa del jazz” a Roma. Purtroppo la cosa non gli riuscì, e come a scusarsi, da Roma mi telefonò quasi ogni sera. Suonò con Gegè Munari, Giorgio Rosciglione, Antonello Vannucchi, il suo quartetto di grandi di sempre, e forse è stato giusto così, fra “jazzisti di razza”. Infine voglio ricordare ciò che avvenne, nel pezzo conclusivo di un concerto di Messina, “I remember Clifford”, che lui dedicò al figlio Beppe: sul finale Enzo faceva una sua figurazione armonica, creando un climax particolare, sotto cui mi venne di mettere il suono lungo e soffuso del piatto. Alla fine mi diede un’occhiata e sussurrò: “Grazie”».

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