ARTE E ARCHITETTURA
Guccione: tra terra, cielo e spazio infinito
L’esposizione traccia un percorso tra più di cinquanta opere, per lo più pastelli su carta, del maestro siciliano
Dopo esser stata al Parlamento Europeo di Bruxelles è giunta a Palermo la mostra “Piero Guccione. Pittura tra poesia e teatro”, che sarà visitabile fino al 17 marzo presso il Loggiato di San Bartolomeo di Palermo (da martedì a sabato ore 16.30/19.30; domenica ore 10/13, chiusa il lunedì), per proseguire poi a Bologna, Berlino e Milano. Ideata e organizzata da Il Cigno Edizioni di Roma e promossa dalla Provincia Regionale di Palermo, l’esposizione traccia un percorso tra più di cinquanta opere, per lo più pastelli su carta, del maestro siciliano (Scicli, 1935), soprattutto bozzetti di scenografie teatrali e manifesti, immagini per pubblicazioni poetiche e letterarie (il racconto di Boito “Senso, Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, o le poesie d’amore di Giorgio Soavi), paesaggi e figure che non sono mai mere illustrazioni ma che si affiancano alla parola e alla musica – quella di Cavalleria Rusticana di Mascagni, della Norma di Bellini, di Tristano e Isotta di Wagner – amplificandone il potere evocativo e il lirismo.
Nei tondi che contengono gli studi per le decorazioni del teatro Garibaldi di Modica Guccione attinge agli scenari barocchi della sua terra, alle architetture fatte di curve, ai cieli limpidi; anche in altre immagini egli parte sempre dai paesaggi del suo vissuto, le spiagge di Sampieri e Punta Corvo, o i campi del ragusano, che trascrive in poesia di luce e tinte, trasfigurandoli in una dimensione quasi metafisica, luoghi dell’incantato sedimentarsi della poesia e della memoria. Anche i personaggi tratti da celebri opere della storia dell’arte – i “Prigioni” di Michelangelo, il Cristo deposto dalla Croce di Pontormo, la Monna Lisa di Leonardo, l’allegoria della Vittoria di Le Nain o la dama e il cavaliere del “Bacio” di Francesco Hayez – che Guccione riprende nei d’après, perdono ogni connotazione storica per assurgere a simboli d’incantato lirismo. Ogni tanto, infine, compare una maschera, spesso associata al fiore d’ibisco appassito o al culmine del suo splendore prima del lento sfiorire: sono gli emblemi della vanitas, dell’aleatoria natura della bellezza; la maschera dalla fisionomia vagamente triste assiste malinconica all’inesorabile svolgersi della recita della vita, a cui nemmeno la bellezza sublimata in poesia può sottrarsi. Catalogo Edizioni Il Cigno, con antologia critica e un saggio di Tahar Ben Jelloun.
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