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“Come campi da arare”: disperazione senza fine

Una piece dove l’incontro fra la parola e il gesto vede quest’ultimo sopraffare ogni altro elemento espressivo

  • 3 aprile 2004

La disperazione che incontriamo sempre più frequentemente nelle stazioni, negli angoli abbandonati dei giardini o semplicemente per strada negli occhi di qualche misero meno fortunato di noi, apparentemente tranquilli nelle nostre esistenze talvolta rassomiglianti a piccole mine impazzite pronte ad esplodere all’improvviso come purtroppo i fatti di cronaca oggi ci raccontano, questa disperazione dicevamo sembra essersi fatta persona nelle tre figure femminili che animano la scena dello spettacolo “Come campi da arare” di Sabina Petix, con la regia di Giuseppe Cutino e Alessandra Fazzino, con la compagnia M’arte, in scena dal 2 al 4 aprile a palazzo Belmonte Riso nell’ambito della rassegna “Assud”, una piece dove l’incontro fra la parola e il gesto vede quest’ultimo sopraffare ogni altro elemento espressivo. La parola diventa corredo decorativo per un linguaggio del corpo più che eloquente, un disegno di movenze che fra violenti cadute e danze patetiche intreccia intensi dialoghi con quegli scatoloni padroni della scena  che, mostri famelici, fagocitano ogni cosa, i corpi come le speranze.

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E questo linguaggio, disperato e disparato, diventa un’universale lingua di dolore più efficace di qualsiasi cosa le tre attrici possano dire (tra l’altro la dizione talvolta marcatamente sicula ci fa chiedere perché allora non si sia preferito il dialetto).  Se dalla brutalità queste donne fuggono (di forte impatto la scena della donna ripetutamente colpita da un invisibile  uomo estremamente violento, interpretata dalla brava Caterina Marcianò)  e’ con questa brutalità che continuano a convivere scatenandosi l’un l’altra in soprusi,  dileggi  e reciproche ruberie delle poche cose e delle misere vesti: l’eterna guerra fra poveri che qui si materializza in una sorta di  spoliazioni continue che intessano un intreccio esasperato di destini di disperazione senza fine.

Lo spettacolo, pur avendo piccoli cedimenti ogni tanto (ma questa discontinuità sembra essere prerogativa degli ultimi “Premio Scenario”) e iterazioni talvolta eccessive, offre momenti molto intensi e suggestivi  nei quali le tre figure diventano un’unica immagine di quella disperazione (e ci si scusi per l’ennesima ripetizione ma di questo si tratta) che pur nella sua immanenza lascia ancora un piccolo spazio all’illusione, che non riesce però a divenire speranza, nella bellissima scena finale degli scatoloni in volo. E questo ci riporta alla memoria un altro volo emblematico, quello mitico di “Miracolo a Milano”, che ci sembra ora incarni quel vero miracolo di pace per l’umanità che tutti desideriamo avvenga. Bravissima come sempre Alessandra Fazzino che qui,  nella sua doppia veste di regista con Giuseppe Cutino e attrice, alla sua splendida espressiva fisicità ha aggiunto l’incanto di una magica voce, ora accorato lamento ora patetico canto. Brava anche Sabrina Petix, attrice e inoltre autrice del testo, oltre alla già citata Caterina Marcianò.

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