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"Chicken Little", il galletto che fa ridere i polli

  • 19 dicembre 2005

Chicken Little
U.S.A., 2005
Di Mark Dindal

Un certo interesse girava attorno a questo “Chicken Little”, primo lungometraggio d’animazione tridimensionale realizzato interamente dalla Disney senza appoggio della Pixar, che in America solo nel primo weekend ha incassato 40 milioni di dollari. I gloriosi studi dello zio Walt, infatti, abbandonano ancora una volta la veste classica e tradizionale che li ha consacrati per dedicarsi ad un progetto fresco e al passo con le nuove generazioni. Ecco allora una grafica più sghemba e colorata, con qualche debito verso lo stile della storica arcirivale Warner Bros, una storia fuori dai canoni fiabeschi e una sceneggiatura più incline alla gag, alla citazione e allo sberleffo, come da qualche anno si usa nell’universo dei cartoni 3D. Un’operazione dichiaratamente autoironica fin dai titoli di testa, che si fanno gioco dell’inossidabile patrimonio disneyano prendendo in giro vecchi e nuovi capisaldi come “Il re Leone” e “Biancaneve”. Tutto questo, però, rimane sulla carta, perché grattando la superficie iconoclasta ed eversiva, emerge quasi subito un nocciolo duro estremamente convenzionale e politically correct. Chicken Little è un polletto occhialuto e nerd divenuto lo zimbello dei suoi concittadini di Querce Ghiandose per aver una volta raccontato che un pezzo di cielo gli era caduto sulla testa.

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I suoi unici amici sono compagni di scuola freak ed emarginati come lui: l’inguardabile Alba Papera, l’obeso Aldo Cotechino – che ha come aggravante un’insana passione per le canzoni di Barbara Streisand – e il silenzioso – per forza di cose – Pesce Fuor d’Acqua. La “rivincita dei nerds” scoccherà quando al gruppetto toccherà salvare le sorti dell’umanità, minacciata da un’invasione aliena. In realtà il vero problema di Little è l’insicurezza, che trae origine dalla distanza della figura paterna e dalla mancanza della madre. Riuscirà a riacquistare fiducia in se stesso soltanto riallacciando il dialogo con il genitore. Qualche buona invenzione c’è: il personaggio di Pesce Fuor d’Acqua, una specie di irresistibile Harpo in versione digitale. E poi una certa satira – all’acqua di rose, naturalmente – sul gigantismo hollywoodiano, sull’invasione del merchandising e sulla politica arraffona e arruffona (il sindaco tacchino che dice solo quello che gli suggeriscono con un cartello). Nell’insieme però non si riesce ad andare oltre la semplicità del cartone infantile, delle canzonette e delle battute innocue con tanto di morale edificante sullo sfondo. Anche il citazionismo (ormai una presenza fissa, ampiamente codificata nel genere, così come il balletto finale di tutti i personaggi) risulta superficiale e svogliato. Per una volta il doppiaggio nostrano non è da buttare. Gabriele Cirilli presta la sua voce al galletto protagonista lasciando da parte dialettalismi e tormentoni da cabaret. Ma qualcosa doveva andare pur storto, e difatti in questo caso lo scempio riguarda la traduzione in italiano di celebri canzoni che compaiono nella colonna sonora come “Don’t go breaking my heart” di Elton John.

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