STORIE
La paura e quei giorni in terapia intensiva: la lotta al Covid di un palermitano a Milano
Altro che "non ce n'è Coviddi". Il virus esiste «ed è più malvagio di quanto voi potete immaginare». In una lettera, la testimonianza di Davide e la sua lotta al Covid
Un "abbraccio protetto" fra due medici impegnati contro il Covid (foto ministero della Salute)
Ricordi impressi nella memoria che vanno raccontati e condivisi, sia per dare speranza a chi sta vivendo lo stesso incubo sia per non far abbassare la guardia a chi ancora crede a "complotti" e alla signora di Mondello.
Sì, perchè altro che "non ce n'è Coviddi". Il Coronavirus c'è eccome, purtroppo esiste «ed è più malvagio di quanto voi potete immaginare».
A dirlo è Davide, un 40enne palermitano (in buona salute) che vive e lavora a Milano da pochi anni e che proprio in quella città ha sperimentato in prima persona l'incontro, per fortuna a lieto fine, con il Covid19.
Un brutto incontro durato "solo" 25 giorni, con tanto di ricovero in ospedale, in terapia intensiva e nel bel mezzo delle feste di Natale con una compagna che lo aspettava a casa (anche lei positiva, ma asintomatica).
Inizia così la quarantena. Dopo i primi 3 giorni passati a guardare serie tv, arriva un po' di noia e l'inappetenza. Poi è la volta del mal di schiena e del dolore alle gambe. Al quarto giorno arriva la febbre alta e rari colpi di tosse «che mi tolgono totalmente il respiro».
La preoccupazione viene messa da parte con una tachipirina. «La febbre si abbassa, io sto meglio e mi ripeto "sarà normale". Non sono preoccupato, la mia compagna sta bene, non ha sintomi e io ho solo un po' di tosse».
La situazione cambia di colpo nella notte. «Mi sveglio nel cuore della notte in preda ai colpi di tosse fortissimi, immerso nel sudore, febbre altissima, mi manca l'aria e quasi svengo. Comincio a preoccuparmi», spiega Davide.
Scatta quindi la chiamata al 118. Dopo poco il paramedico era in soggiorno a visitarlo. Tutto nella norma - gli dicono - ma una frase lo mette in guardia: "Non ci sarebbe la necessità, ma se fossi mio fratello ti direi di andare a fare un controllo".
C'è qualcosa che non va.
La prima volta al pronto soccorso dell'ospedale San Raffaele passa in codice verde, ma col fiato talmente corto che i «pochi metri che distanziavano il pronto soccorso Covid da quello normale, per me sono stati chilometri». Dopo i controlli di routine, l'elettrocardiogramma, l'emogas e ore di attesa in barella l'esito è rincuorante: si torna a casa con una cura in tasca fatta di pillole e punture di eparina.
«Al quinto giorno avevo esaurito le forze - continua -. Nonostante i vari farmaci e la paura dell'ospedale, mi sono dovuto arrendere. Il Covid aveva colpito duro e in maniera subdola».
Davide così torna in ospedale. Questa volta dice di "sì" all'ossigeno e in attesa di un posto nel reparto di Infettivologia, passa la notte tra tubi di ossigeno e flebo, ma intanto va perdendo ancora più forze. Frastornato e confuso, fa la Tac e al rientro in stanza arriva l'esito: «La situazione è abbastanza grave, dobbiamo trasferirla in terapia intensiva. Non dobbiamo ancora intubarla, ma se servisse almeno è già li».
«Avrei voluto piangere perché avevo visto in tv cosa avrei trovato, ma soprattutto non ero sicuro che ne sarei uscito con i miei piedi o dentro un sacco, ma mi sono trattenuto. Pensavo a casa, pensavo che non dovevo far preoccupare nessuno, anche se tutto sembrava andare male.
Era tutto così surreale, così assurdo che mi sentivo quasi che non lo stessi vivendo in prima persona, come se fossi uno spettatore annoiato davanti alla tv che ripete la frase della "signora Mondello". Giuro che avrei voluto averla accanto in quel momento», ironizza.
Il 29 dicembre Davide arriva quindi al Pallaria (la terapia intensiva del San Raffaele). «Qui trovo medici ed infermieri straordinari. In un attimo mi sistemano, mi mettono la cannula per emogas e mi attaccano a un ventilatore speciale che invia ossigeno ai miei polmoni. Tutto in poco più di dieci minuti e quasi senza dolore. Sono bravissimi tutti».
In seguito Davide scoprirà che in quei primi tre giorni ha rischiato di morire e che oltre al Covid, altri due batteri avevano deciso di stabilirsi dentro di lui. «Decidono di farmi l'antivirale e di bombardarmi di antibiotici - aggiunge -. È quasi un mini intervento. Mi coprono il viso con un telo, sterilizzano la parte, anestesia locale e via. Anche stavolta, nonostante il dolore e la paura, devo dire grazie a quel dottore "angelo" che mi teneva la mano e che mi ha dato la forza di resistere».
Sono passati cinque giorni da quando Davide è entrato al Pallaria. «Vedo medici e infermieri correre continuamente durante i loro turni di 12 o 14 ore - spiega -. Ogni tanto qualcuno si ferma a fare due chiacchere e lì riesco a vedere la loro dolcezza dai loro occhi, unica parte del corpo visibile. Sono stanchi, sono pochi, ma non si fermano un attimo».
Intanto la cura sta facendo effetto. L'aiuto dell'ossigeno diminuisce, gli esercizi respiratori vanno avanti. Da lì a poco Davide uscirà da questo incubo. Tornerà a casa il 12 gennaio, a quasi un mese dall'inizio di tutto.
«Io, per fortuna ce l'ho fatta - conclude -. Non sono tra coloro che purtroppo hanno lasciato le loro famiglie senza neanche poterli vedere un ultima volta.
Spero che le mie parole possano servire a tutte quelle persone che a tutt'oggi credono che sia tutto finto. Proteggetevi, per voi e per i vostri familiari. E vaccinatevi, se potete».
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