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La meglio "palora" è quella che non si dice: così i siciliani sbagliano (a parlare)

Un racconto ambientato a Palermo infarcito di quei vocaboli che conosciamo ma che continuiamo a sbagliare nella pronuncia dalle vie, alle cose e alle persone

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 15 ottobre 2024

«Il sogno ricorrente è quasi sempre lo stesso. Sono in centro città, forse tra il Politeama e il Teatro Massimo. Mi sento leggero, felice, in tasca ho un’American Express Platino e le commesse mi mandano bacetti dalle vetrine invitandomi ad entrare. Si sente profumo di fiori, deve essere primavera, forse maggio, Palermo è bellissima.

Tutt’intorno, la gente passeggia spensierata, mi salutano, gli sconosciuti mi regalano sorrisi disinvolti. Entro in un negozio, decido di regalarmi una camicia.

La commessa è bellissima, sembra aspettarmi, mi accoglie imboccandomi con una ciliegia e porgendomi un bicchiere di champagne. -Ecco, stavo cercando…- -Sappiamo già cosa cerca, signor Tantillo. Mi segua, il reparto cammicie è da questa parte…- Quella maledetta doppia consonante! Un tic nervoso, un tuono, il cielo si incupisce, scoppia a grandinare.

D’improvviso tutti iniziano a sbagliare le parole: quel bellissimo sogno si trasforma in un terrificante incubo disortografico. Cosa può essere, dottore?» «Cosa intende specificatamente per disortografico?».
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«Ecco, beh, invertono le sillabe, omettono vocali dalle parole, le storpiano… L’ho letto in una rivista!». E il dottore: «Il disturbo disortografico veramente è ben altra cosa… comunque ho afferrato».

«Le spiego meglio, mi faccia continuare il sogno. Terrorizzato, esco dal negozio, attraverso la strada senza guardare, una macchina rischia di investirmi. -Il semafero è rosso!- mi urla arrabbiato, l’autista. Poi fa riferimento a mia madre, etichettandola con un epiteto in lingua latina che ha a che fare con la declinazione puella- puellae.

La fame nervosa mi assale, sento che se non metto qualcosa nello stomaco svengo da un momento all’altro. Fortunatamente svolto l’angolo e trovo un panificio/salumeria, uno di quelli alla buona.

Ahimè, devono avere avuto tutti la mia stessa pensata perché è affollatissimo. Cerco di comprendere se c’è un turno, appaio spaesato. Forse una signora lo carpisce e tenta di aiutarmi: -c’è la fila, deve prendere il nummero-. Adagio adagio, spinto in avanti dalla massa carneiforme, mi ritrovo di fronte al salumiere. -Una rosetta con la bresaola?- chiedo. -Nonsì, rosette finite. Abbiamo solo spilatini.

Cielo pozzo fare con la salame o con i’pprociutto…-. Quindi si rivolge a sua figlia: -Cherolain, passami il cortello!- -Non può essere!-, mi dico. Avevo letto qualcosa del genere nell’apocalisse di Giovanni, ma non era così estremo. Devo mettermi in salvo, devo farlo prima che sia troppo tardi. Cerco una chiesa… non ce n’è! -Quella libreria andrà benissimo!-. Tento di aprire la porta spingendola con forza, come quelle dei Saloon nei film western, ma non si apre.

È il metronotte di guardia a darmi spiegazioni: -pultroppo la porta è broccata. Deve entrare dall’altra banna. Non c’è tempo per lasciarsi andare allo sconforto, entro dalla porta di servizio. Dentro tutto si placa, si restaura una dimensione pacifica. In fondo, seduti attorno ad un tavolone, un gruppo di studentelli. Mi avvicino attratto come le api dal miele.

Ad occhio e croce sembrano delle scuole medie. Discutono animatamente, faccio finta di guardare i libri negli scaffali per cercare di capire cosa stanno studiando. -Ah, scienze!- mi dico, allungando il collo sul libro che hanno a centro di tavolo. Provo a leggere l’argomento specifico: “Apparato digerente- lo stomeco”.

Un altro tic, un altro tuono, mettono da parte scienze e passano alla matematica. -Aprite il guaderno!- dice quello che sembra il più studioso. Poi li interroga: -quanto fa cinguanta più quartordici?- Scappo, c’è un bar dentro la libreria.

Il garzone mi porge la tazzina e mi indica dove sta lo zuccaro. Lo tracanno manco fosse Red Label. Immediatamente le molecole di caffeina cominciano ad interagire con i recettori del mio sistema nervoso, trapassando la barriera emato-encefalica delle cellule endoteliali, e mi sale un’improvvisa botta di claustrofobia.

Il garzone ne riconosce i sintomi e corre in mio soccorso: anche lui soffre di crastofobia e spesso gli sfocia in attacchi di pane. Mi spiega che in famiglia ne soffrono da generazioni: pure sua sbinnonna ne soffriva. Ho bisogno di scappare, ho bisogno di farmi vedere da un medico! Esco per strada, ma la vista mi si annebbia ed ho un mancamento.

Una calca di gente mi accerchia preoccupata. La diagnosi condivisa vuole che io sia rimasto vittima di uno sbenimento. Arriva la ambolanza (ne arrivano due altrimenti non sarebbe un ambo), i presenti intimano agli infermieri di portarmi quanto prima possibile allo spitale.

Tiro un sospiro di sollievo credendo di essere oramai in salvo, ma i miei soccorritori cominciano a litigare sulla strada da percorrere per evitare traffico. Secondo l’infermiere dovremmo evitare Corso Tugher, secondo l’autista è il Corso Calatafimini che non s’ha da fare.

L’autista di infervora, sente di essere stato invaso nel proprio mestiere. Scoppia la diatriba: -allora tu mi vuoi spidare!-. D’un tratto, però, l’effetto caffeina si arresta, provocando un blocco del mio sistema dopaminergico. Si innesca, quindi, un’inesorabile fase down che mi porta a riconsiderare il mondo come un luogo buio e tempestoso.

Il tempo si deforma, la mente si offusca, le palpebre si appesantiscono. Mi risveglio su di una barella: per grazia di Dio c’è il medico. Inizia a palparmi e capisco subito di essere finito dalla padella alla brace. -Signor Tantillo,- mi dice -le fa male se le tocco il linguine? Temevamo si trattasse di un liptus celebrale ma le do la mia garenzia che non c’è niente.

È un tipo di malanno passeggero che scomparisce da solo. Si faccia uno shampoo antifosfora e una tacchipirina-. Ecco, dottore, il sogno ricorrente è questo. A quel punto mi risveglio in preda alla paura. Secondo lei di cosa si tratta?».

«Ecco, Gialluca, se propio te la devo dire tutta, per me non hai nessun poblema. Anzi, meno ne parli meglio è: la meglio palora è quella che non si dice…».
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