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Incorreggibili eretici: quando sul rogo di Palermo finirono Suor Gertrude e fra Romualdo

L’atto di fede era una cerimonia in pubblica piazza dove i "rei" giudicati dagli inquisitori del Santo Tribunale venivano svergognati. Ecco quello che accadde a Palermo nel 1724

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 7 dicembre 2020

L'incisione di Francesco Ciché esposta al museo Diocesano di Monreale

Il panino con la frittata avvolto nella carta stagnola: ecco cosa ha salvato intere generazioni di studenti annoiati dai musei. Tre ore... per un bambino sono un’eternità tre ore!

Tre ore ad ascoltare una che non conosci parlare di cose che non conosci, mentre altri visitatori, che non conosci, ti sbattono addosso oggetti che non conosci perché tu sei piccolo e loro, a tutto fanno attenzione, meno a quelli che non conoscono. Belli i musei agli occhi dei bambini, le cose giuste!

Comunque, tra uno sbadiglio e l’altro, mi trovai attratto da uno scarabocchio come quelli che facevo io in classe, ma più bello. Si trattava, in realtà, di un’incisione firmata da un certo Francesco Cichè, e ancora presente al museo Diocesano di Monreale, in cui veniva raffigurata una giornata un po' particolare successa al Palermo il 6 aprile 1724.

Ora ve la racconto.

C’era una volta un'isola, che siccome era una delle più belle del mondo, e sicuramente messa a malo posto, non faceva altro che subire dominazioni di popoli che, con la scusa della pace, venivano a prendersi tutto quello che c’era da prendersi, farci sentire solo il profumo, e poi se ne andavano lasciandoci con gli occhi pieni e le mani vacanti. Sicilia si chiama questa isola.
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Sta povera crista di terra, nel 1724, aveva superato da poco il terremoto che aveva scassato tutte cose nella valle del
Belice
, mentre la Prussia vedeva nascere il filosofo Kant, e in Europa era finita da poco una guerra di successione per chi doveva subentrare al posto di Carlo V e non se ne era capito più niente. In quegli anni, essendo proprio quelli del periodo Asburgico, avevamo come viceré un certo Frà Giocchino Fernandez Portocarrero.

Sguardo fiero, sempre libri in mano perché faceva più masculo e un qualcosa, almeno nelle pitture, che puzzava di cardinale Richelieu, quello de” I tre moschettieri” per intenderci. Ah no!? Non solo era pure lui cardinale, ma era anche conte di Palma del Rio (che detto così pare il posto dove la Carrà "ad un certo punto della passeggiata" incontra Pedro Pedro Pedro Pedro Pe’) ma era pure marchese di marchese di Almenara e cavaliere di Malta.

Chiamalo babbo... In questa storia, però, manca un cristiano, inteso come uomo, che fa da narratore; e visto che il narratore non lo posso fare io perché nel 1724 ero ancora in gestazione, ci avvaliamo di uno "storico" che i fatti suoi non se li faceva mai e s’annotava tutte cose: Antonio Mongitore.

Vi piace o non vi piace il nome, sta di fatto che Antonio Mongitore quel 6 aprile del 1724 era dove ci interessa a noi, e per di più vide quello che successe con i suoi occhi. “Mastro Antò!”, Mastr’Antò per dire ovviamente. Vabbè che Antonio era canonico della cattedrale di Palermo, politico, scrittore, però per sapere tutto quello che sapeva si vede che era uno che stava in mezzo alla gente che gli rivolgeva questi saluti alla buona.

“Mastr’Antò”, appunto, “come siamo?!” “Ca come dobbiamo essere? qua siamo! Ci siamo venuti a vedere sta bella rappresentazione”. Ecco, nel 1724, quando si diceva “sta bella rappresentazione” ci si riferiva a un “auto da fé” (atto di fede, se lo spagnolo non vi fa tanta simpatia).

L’atto di fede altro non era che una cerimonia in pubblica piazza dove i “rei” giudicati dagli inquisitori del Santo Tribunale venivano svergognati e, se gli andava bene, privati di proprietà e costretti alla miseria, o, se gli andava male, mandati a remare nelle galere se non addirittura condannati al rogo.

Mastr’Antonio Mongitore era lì, nella piazza di Sant’Erasmo, perché dovevano dare fuoco a due peccatori, così, tanto per purificarli. Non vi immaginate ambiente lugubre e facce da funerale perché siete sbagliati.

Quando c’erano ste' cose, al contrario, era tipo il festino di Santa Rosalia: calia, simenza, vino a tinchitè, balconcini privè da dove i ricchi schifiavano i poveri e strade sterrate da dove i poveri schifiavano i ricchi. Poi scroscio di tamburi e non volava una mosca. Questo era lo sfondo, ma sfondo lo lasciamo nello sfondo perché, a noi, Antonio Mongitore ci interessa ed è dalla sua sedia che dobbiamo vedere lo spettacolo.

Urla, schiamazzi, Antonio di qua, Antonio di là, abbracci e baci con amici che non vedeva da tanto tempo. Poi, come detto, rullo di tamburi, tutti zitti e pipa, e Antonio si risedeva al suo posto in tribuna vip. Ci sono pure gli inquisitori (belle facciazze!) Giovanni Ferrer, Giuseppe de Luzan e Biagio Antonio de Oloriz, che per l’occasione erano stati portati sul posto dalla carrozza del viceré che era l’unica ad avere sei cavalli.

E Antonio Mongitore, che a dovizia era peggio una pettegola dietro una persiana, tipo come Johnny Stecchino, si
mette a fare il nome di tutti e, oltre che a descrivere damaschi, damaschini, tendaggi in oro, oro negli anelli, senato, musicisti, raccomandazioni del tipo: "Se vai a Palermo non toccare le banane".

Ad un certo punto arrivano i condannati dentro un carro trainato da buoi: una suora e un frate. I presenti se ne vanno in delirio... e quando gli ricapita più di vedere sul rogo un frate e una monaca? Sorella Gertrude e fratello Romualdo hanno lo sguardo perso nel vuoto. Anni di patimenti, prigione, interrogatori, topi nelle celle, freddo di inverno e caldo d’estate, li avevano cosi provati che, forse, manco capivano bene dove si trovano.

Filippa Cordovana, così si chiamava la donna, era di Caltanissetta e aveva 57 anni. Entra nelle carceri nel 1699 e ci resta fino qual 6 aprile di quell’anno vedendosi invecchiare insieme a quel frate, Romualdo, che invece apparteneva all’ordine di Sant’Agostino ma la puzza di chiuso l’aveva inghiottita a boccate amare uguale uguale a quella sua.

Per farla completa li avevano condotti con gli abiti dei loro ordini e delle mitre (copricapo tipico) in testa che dovevano avere la stessa funzione delle orecchie di asino messe ai bambini che di scuola non vogliono neanche a brodo. “Eretici, impenitenti e incorreggibili”, ecco come vengono liquidati Gertrude e Romualdo.

Prima sale fra Romualdo sul palco dove gli verrà chiesto di togliersi l’abito religioso, lasciandosi addosso solo la sottoveste piena di pece; la stessa cosa venne chiesta alla monaca, ma in più le bruciano i capelli per cospargerla meglio di pece.

Era abbondantemente passata la mezzanotte che i palermitani se ne tornavano alle loro case, i preti nelle loro chiese, i potenti nei loro palazzi, ma tutti soddisfatti di aver partecipato a un qualcosa che oggi sarebbe del tutto simile a uno spettacolo di fuochi artificiali. All’alba Gertrude e Romualdo erano tornati cenere.

Nessuno avrebbe saputo i loro nomi se non fosse stato per Antonio Mongitore.
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