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Come "struppiarsi" con 'a pattina in legno: così si divertivano i picciriddi palermitani

Le ruote non erano semplici ruote ma cuscinetti a sfera. Nessun freno ma quanto divertimento per i bambini di quell'epoca (e non solo) che avevano il monopattino

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 16 maggio 2022

Monopattini in legno negli anni 50 (Archivio Farabola)

In principio c’era Ezechiele che nella Bibbia vedeva i carri celesti che volavano, poi ci fu Hermes, la divinità greca, figlio di Zeus e della Pleiade Maia, che aveva i sandali alati, in fine arrivò il dottor Emmett Brown di “Ritorno al Futuro” che riusciva a costruire la DeLorean volante.

Diciamoci la verità, negli anni '90, proprio la prima volta che ci è capitato di vedere il secondo episodio di questo capolavoro prodotto da Steven Spielberg, nella scena in cui il protagonista Marty McFly va avanti nel tempo per salvare il suo futuro figlio, abbiamo tutti un po’ sognato che quel beneamato 2015 fosse veramente come ce lo mostravano.

Macchine volanti, vestiti autoasciuganti, scarpe autoindossanti e skateboard che lievitavano. Non so voi, ma ricordo che si era sparsa la voce che vedeva probabile che nella seconda decade del 2000 ci sarebbero state veramente tutte queste cose.

E invece, ora che siamo nel 2022, ci troviamo Pippo Baudo ancora in televisione, le scarpe non s’allacciano da sole, i politici sono su per giù sempre gli stessi, le macchine che non volano, anzi ci lasciano a piedi benzina e l’unico sistema di salvataggio si chiama “scinni e ammutta”, e gli skateboard non lievitano.
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Beh, dobbiamo dire che ultimamente le città, Palermo su tutte, sono invase da questi monopattini elettrici che la gente prende ovunque e lascia ovunque e che sbucano dagli incroci con la stessa strafottenza di “Matteo Matteo” ai tempi de Covid.

Ultraleggeri, fatti in carbonio, col pannello solare, con la macchinetta del caffè, piegabili, ripiegabili, ergonomici, economici, che costano assai o rubati: ormai se ne trovano di tutti tipi.

E se un'equipe di scienziati aveva calcolato che il peso di tutte le formiche del mondo (visto il loro incredibile numero) potrebbe equiparare il peso di tutti gli esseri umani del mondo, l’Università dell'Oaglio ci fa sapere che entro il 2030 il numero dei monopattini elettrici potrebbe superare quello del genere umano.

Oramai siamo nella società del consumismo, infatti siamo tutti consumati. E per capire che siamo tutti consumati basta vedere che oggi non si muove più nessuno, soprattutto i bambini: i mezzi si muovono da soli.

Ok il progresso, ma volete mettere i bellissimi monopattini di legno che almeno una volta hanno posseduto tutti i bambini fino agli anni '90? Io, di quella generazione, vi parlerò di quegli anni.

“A pattina”, così la chiamavamo volgarmente, fatta di legni di scarto e con l’unico sistema di sicurezza che rispondeva al nome di “appena torni a casa struppiato, ti do il resto”.

Era decisamente più spartana l’educazione, e se tornavi a casa struppiato (cioè se ti facevi male) papà ti avrebbe dato subito un bonus facciate. Io, personalmente, non sapevo costruirlo, ma, ricordo bene, in ogni combriccola d’amici ci stava sempre uno con questo dono innato, come se nella sua vita passata fosse stato un falegname.

Per costruirlo servivano due assi di legno, che costituivano il telaio, un cubo di legno che si sicurava nella parte anteriore della pedana, quattro occhi a vite (due per asse), un lungo cacciavite che si infilava dentro gli occhi a vite per tenere appunto le due assi unite e che costituiva lo sterzo, e, in fine, il tocco di classe: le ruote.

Eh, ma le ruote non erano semplici ruote, anche perché se chiedevi a papà di comprarti delle ruote in gomma per il monopattino come minimo ti dava una boffazzona (schiaffone) che per darti la seconda ti doveva venire a cercare.

Le ruote, che ruote non erano, erano i cuscinetti a sfera, che noi chiamavamo “ruote a palline”, e che si andavano solitamente a scroccare dalle officine che ai quei tempi erano letteralmente infestate di bambini per questo motivo. Manubrio in legno, freno manco a pensarci e grip che ad ogni curva c’era sempre qualcuno che si rompeva le corna.

Infine c’era la decorazione, che solitamente corrispondeva al grado militare che si aveva all’interno della combriccola. La mia era mezza e mezza perché ero caporal maggiore (quindi appena colorata), i soldati semplici la dovevano invece tenere grezza per come era; poi, più in alto si saliva di grado più aumentava la customizzazione.

Di solito per dipingerle si scroccavano i barattoli morenti sempre dai falegnami, lavorando tutto di pennello e scotch carta: i capuzzelli avevano sempre quelle più belle.

Qualcuno rosa-nero come i colori del Palermo, qualcuno col colore che gli capitava, altri con le figurine dei calciatori attaccate sopra, le frange nel manubrio o i tappi di birra piantati con i chiodini nell’asse anteriore; se poi ci addentravamo nelle borgate c’erano pure gli “eletti" a cui il padre aveva montato pure uno stereo della macchina di dubbia provenienza.

Di questi ricordi mi porto addosso solamente qualche ginocchio più che sbucciato, l’incredibile rombo delle ruote a pallina che superava il decibel prodotti da un Boeing 747 e tanta nostalgia.

Erano giochi semplici quelli, erano tempi in cui i bambini guardavano ancora il sole senza affondare la testa sugli schermi.
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