LE STORIE DI IERI
Gian Maria Bassanelli, l’oste che nutriva anche l’anima
“Vita di taverna vita eterna” fu espressione che ancora a metà del Settecento, ma anche per parecchio altro tempo dopo, qui rimase speciosa giustificazione alla vita di bagordi che gli sfacinnati più irrecuperabili conducevano nelle bettole e nei ritrovi sui cui tavoli correvano i dadi e scorreva il vino forte. Eppure a Palermo, parecchio tempo prima che i cosiddetti caffè letterari diventassero famosi in tutta Europa, ci fu un locale, appunto una taverna, nella quale un oste illuminato - che nel 1767 era arrivato qui dalle brumose pianure lombarde - cominciò a nutrire oltre che il corpo anche l’anima dei suoi avventori. Ci riferiamo al famosissimo ostiere Gian Maria Bassanelli che insieme alla sua “Taverna di li Casciàra” fu celebrato nell’aureo libretto di un abate caro a Giovanni Meli. Un personaggio e una taverna dei quali gli attuali “palermitanisti” hanno appreso con dovizia di particolari soprattutto dalle straordinarie pagine di “Palermo Felicissima” di Nino Basile.
Il buon lombardo aveva solo 47 anni quando passò a miglior vita. E grande fu la commozione delle centinaia di persone che gli tributarono i funerali che si conclusero con l’inumazione nella vicina parrocchia di San Giacomo La Marina alla Vucciria. Dove le sue ossa furono però disperse dalle cannonate borboniche che vi spezzarono anche la resistenza di alcuni insorti nel maggio del 1860. Una chiesa che, ricostruita alcuni anni dopo, resta solo un guscio vuoto, pericolante e sconsacrato nella stessa via dei Cassàri, nel cuore del centro storico disastrato. Dove molti dei vecchi e dei giovani che sono ora i nostri ultimi della terra si inoltrano e forse si emarginano da se stessi, di giorno ma ancor più la notte. Firmando la loro presenza solo con l’ultima bottiglia di birra vuota lasciata in linea con le altre sulla soglia di un’assai diversa taverna nel mercato che muore.
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