TRADIZIONI
Agrumi, cannamele e bachi da seta: quando in Sicilia c'era la "patria" degli oli essenziali
A raccontarci questa tradizione è Carmelo Caccetta, docente di storia, fondatore del Museo della Canna da Zucchero e del Limone, che si fa promotore dell'antico mestiere
Ma in un’epoca in cui Messina era preda di invasori dall’ingresso via mare, a cominciare dai Barbari, ci volevano anche delle misure resistenti per difendere il territorio dalle scorrerie ingovernabili.
Cosa avrebbe potuto frenare la ferocia degli oppressori che volevano depredare gli abitanti, soprattutto dello zucchero ma anche olio, vino e seta?
Il Castello Bastione che è localizzato su un poggio di Capo d’Orlando (florido comune balneare del versante tirrenico) era una di queste misure a salvaguardia del territorio circostante per le piantagioni di centinaia e centinaia di famiglie, una fortezza sorta nel 1631 che aveva il compito di fungere da vedetta.
Ricordiamo che Capo d’Orlando non era la sola zona vocata a questi tipi di piantagione nel XIII –XIII secolo. Il Castello è anche denominato "Torre del Trappeto" perché, nel '400 e fino al 700, esisteva anche un trappeto (frantoio) che serviva per la trasformazione della canna da zucchero in zucchero.
Lo studioso di storia e docente di scuola elementare, Carmelo Caccetta ha raccolto i reperti che gli sono stati possibili e ha fondato un piccolo Museo della Canna da Zucchero e del Limone, due prodotti scaturiti dalle colture che simboleggiano lo zoccolo duro dell’identità di questo comprensorio attorno alla struttura.
Il Museo viene realizzato al piano terra del Maniero e contiene le testimonianze di questo passato, grazie alle quali il professore si è fatto anche promotore negli istituti scolastici dell’antico mestiere di estrarre oli essenziali e le scuole stesse si sono avvicinate con il passaparola a questa tradizione che aiuta a conoscere le proprie radici storico – culturali.
Caccetta ha creato in Contrada Malvicino una mini coltivazione di canna da zucchero in una sua piccola proprietà a pochi chilometri dal Castello Bastione e mostra con visite e corsi di apprendimento come dalla canna da zucchero si ricavi la melassa e come si trasformi in zuccheri.
Per quanto riguarda gli agrumi, guida alla preparazione manuale degli oli essenziali con vari utilizzi a scopo didattico sia per alunni che insegnanti per la presenza di una quindicina di limoni e altre varietà.
Allo stesso tempo, il maestro espone uno spaccato delle vicissitudini economiche del territorio, grazie a questo laboratorio naturale dove lui impiega semplici attrezzi: innanzitutto, un coltello antico e un cucchiaino cavapolpa detto rastreddu, con cui si svuota il limone e si estrae l’albedo ovvero il lippo dell’agrume e si lascia la buccia gialla che si chiama “flavedo”.
Questa viene messa nell’incavo di una spugna e viene premuta perché lo spirito – l’olio essenziale è volatile e infiammabile. Infatti, se qualcuno accostasse un fiammifero acceso mentre si preme la buccia, questa prenderebbe fuoco.
Caccetta va avanti con la sua spiegazione: «Si utilizza un recipiente di rame detto conculina, in modo che la spugna assorba questo spirito, poi quando se ne produce una grossa quantità, questa viene trasferita in dei contenitori per essere commercializzata in Italia e all’Estero».
Dal 1600 al 1995, il 90 per cento di quest’area della Sicilia era interamente coltivata ad agrumeti e gran parte della popolazione veniva captata in maniera diretta o indiretta per l’agrumicoltura quindi la coltivazione, raccolta, la potatura, la distribuzione.
«Tutte le maestranze impegnate a vario titolo erano solite portare a casa tutti i limoni di scarto di seconda/terza categoria cioè difettosi (per esempio macchiati oppure oblunghi, nel negozio già si trovano separati) – afferma il maestro – e li scelgono nel magazzino detto ‘filatorio’ che significa ‘luogo operoso’ dove si eseguiva questa scelta dei prodotti mediante dei ‘calibri’ metallici e a forma di cerchio (da 5 a 25 centimetri) e la determinavano per grossezza. I lavoratori adottavano dunque la tecnica manuale».
Riesumando la ricchezza della canna da zucchero, bisogna puntualizzare che intorno al ‘700 la sua coltivazione scompare quando è stata scoperta l’America. In quel periodo, il prodotto fu impiantato nel Centro e Sud America e, dopo 70-80 anni, l’importazione convenne di più, anziché proseguire con la coltura diretta e la sua lavorazione.
C’è stata in tutta la Sicilia una diminuzione di questo prodotto. La Graminacea tropicale perenne veniva piantata, raccolta, traslocata nel trappeto dove veniva lavata e tagliata a tocchetti, posizionata in una tramoggia (una pressa a dischi, una specie di sporta che ricorda quella presente nei frantoi per l’olio).
«In questa sede, i tocchetti venivano pigiati buttando fuori la melassa che corrisponde al 15% del volume della canna da zucchero – chiarisce Caccetta -. Questa, attraverso tre successive spremiture, veniva bollita fino ad arrivare ad una asciugatura completa, quasi una semolatura.
Queste tre fasi di bollitura in tre diversi contenitori portavano all’asciugatura del prodotto che veniva messo in dei coni di terracotta (28 centimetri di diametro), ordinati all’interno di alcuni fori di un tavoliere fino a metà della loro altezza (56 centimetri), con la punta rivolta verso il basso e con una fessura di due centimetri.
Così, l’eventuale residuo di umidità veniva raggranellato a parte in altro recipiente. Dopo l’asciugatura, questi prodotti venivano tirati fuori, avvolti singolarmente negli imballaggi quali sacchi di juta o di origine vegetale per non farli sbattere tra loro e rompersi; infine, venivano inseriti in delle casse e caricati sui mezzi per giungere nei porti italiani ed essere commercializzati nelle varie città».
Lo zucchero di canna veniva venduto nelle farmacie e nelle drogherie nel XIII e XIV secolo perché era ritenuto medicamentoso e poi nelle attività commerciali perché affiancò e in alcuni casi soppiantò il miele come dolcificante. Era fornito a peso con dei bilancini, dopo che le famose forme a cono venivano sgretolate.
«La produzione in Europa finì perché tra il 1807 e il 1810, in Polonia, nacquero i primi opifici – laboratori per l’estrazione dello zucchero bianco da barbabietola, quello utilizzato anche adesso - svela Caccetta -. Questa formula viene attribuita ad un chimico tedesco molti anni prima però venne applicata molto tempo dopo sostituendo la coltura della canna da zucchero che era anche più dispendiosa.
Sotto l’epoca di Napoleone, in un luogo vocato alla barbabietola, si potenzia questa coltivazione. Alcuni decenni dopo, attecchisce anche in Italia, non perché prima non ci fosse ma perché in Polonia c’è stata la vicinanza con chi ha permesso di diffondere la procedura e la composizione».
Nel Sud Italia, in particolare Sicilia e Calabria, c’era una intensa coltivazione da canna da zucchero e, in quel boom di innovazione agricola fuori dallo Stivale, le due regioni confinanti hanno dismesso i loro terreni dedicati a quel filone che erano costieri o limitrofi ai corsi d’acqua quindi ad impasto misto del genere “alluvionale”.
«La Piana di Capo d’Orlando - precisa Caccetta – ha queste caratteristiche perché nella zona di Contrada Malvicino c’è una fiumara molto copiosa che si chiama ‘Zappulla’ e convogliava le acque anche dei Monti Nebrodi. Tutte le aree dove c’erano abbondanti corsi d’acqua: sempre sul litorale tirrenico di Messina, abbiamo Naso, Brolo, Rocca di Caprileone, Torrenova, Sant’Agata di Militello e Acquedolci. Quest’ultima pare che abbia preso il nome proprio dalla presenza di un trappeto che convertiva la canna da zucchero e, attraverso un torrentello, conduceva le acque dolci nel mare».
I territori che avevano produzione più cospicua di canna da zucchero erano Capo d’Orlando, Torrenova, Rocca di Caprileone e Sant’Agata dove c’è la fiumara Rosmarino e Acquedolci. Si deve considerare anche il fatto che trattandosi di superfici pianeggianti già a 5-6 metri dal mare si possono scavare pozzi d’acqua.
«Quando gli Arabi hanno sperimentato le norie anche in Sicilia, si potevano irrigare i campi con questi sistemi – approfondisce l’esperto - che utilizzavano animali legati ad una grande ruota per estrarre l’acqua dalle falde».
Sul fronte agrumeti, si deve registrare che Capo d’Orlando ha avuto fino agli anni ‘60-‘70 una produzione manuale di oli essenziali che poi è stata avvicendata dall’industria. Non è un caso che nella zona dove sorgeva il trappeto del ‘600, adesso c’è una delle fabbriche più grandi d’Italia,"Eurofood", che produce oli essenziali e derivati degli agrumi con le macchine e non manualmente: dai succhi alla pectina che è un addensante per tanti prodotti che vengono confezionati in questo ambito.
Il titolare di questa realtà è l’imprenditore Francesco Ingrillì che è in atto il Sindaco di Capo d’Orlando e ha ereditato l’industria da suo padre che a sua volta estese l’opificio di suo padre, costruito negli anni ‘40.
È necessario un flashback. Nel 1817, a Messina nella maestosa Palazzata della Cortina del Porto, fu fondata da William Sanderson e Arthur Barrett la “Sanderson&Sons”, la prima fabbrica al mondo per il trattamento degli agrumi che fu rilevata nel 1906 dall’uomo di fiducia del gruppo manageriale, il chimico Giuseppe Bosurgi, nonché Marchese di Rometta e da un altro collaboratore inglese Oates.
Il terzo William Sanderson, che diresse la vendita dello stabilimento, si recò nel Sud America a creare un impianto ancora più massiccio. Poi, accadde il terremoto del 1908 che distrusse anche questa fabbrica insieme alla Palazzata ed uccise i componenti delle famiglie socie.
Si salvò solo Giuseppe Bosurgi, che si trovava fuori città. Seppure fosse capostipite di un’importante famiglia peloritana, il nobile dovette con le sue sole forze trasferire il suo commercio a Catania e, nel 1911, tornò a rivitalizzare a Messina questa attività nel villaggio Pistunina, grazie anche alla sua mente eccellente, manifestata già da laureato giovanissimo; ebbe anche il merito di portare l’innovazione della catena del freddo per la conservazione per esempio dei succhi.
Dopo la sua morte nel 1935, la moglie Adriana Caneva e i figli Leone ed Emilio presero le redini della proprietà e consolidarono gli affari anche in Sud America con terreni molto favorevoli: “Isola Bella a Taormina apparteneva ai Bosurgi” – rispolvera Caccetta.
Una magnifica villa porta il loro nome lungo la riviera nord di Messina. Nel 1910, banchieri tedeschi ebrei hanno costituito a Messina la sede legale dell’Arenella Spa (dal nome del Quartiere palermitano) con laboratori a Palermo e con un’ottantina di opifici disseminati in tutta la Sicilia che si occupavano dell’estrazione dei prodotti del limone. Il campo d’azione degli oli essenziali va dalla farmaceutica alla profumeria alla enogastronomia, in particolare in pasticceria.
Da 150 chili di limone si racimola un litro di oli essenziali manualmente. C’è un forte legame tra il chimico Bosurgi e Capo d’Orlando: l’imprenditore andava personalmente dai commercianti e nelle piantagioni a scegliere gli agrumi per trasportarli a Messina. La fabbrica Sanderson precipitò nel fallimento nel 1981, dopo alcuni cattivi investimenti degli eredi e dopo la cessione alla Regione, fino all’abbandono e alla palude di veleni.
Tornata nelle mani dell’Ente di Sviluppo Agricola solo l’anno scorso dopo il dissequestro della magistratura e dopo aver subito vari incendi dolosi, l’ex stabilimento agrumario - fiore all’occhiello di questa città, insieme ad altre iniziative economico - sociali della stirpe – dondola, nell’ultimo ventennio, nei contesi progetti di riconversione in: una centrale di pannelli solari o un sito di smistamento logistico o un Museo che narri due secoli di storia, magari con i fondi del Pnrr.
Al momento, resta il ricordo del profumo degli agrumi e la memoria dei fatti tramandati da chi c’era, come in qualche interessante volume ispirato al 150° anniversario dalla comparsa della Sanderson o ispirato dalla curiosità di un maestro come Caccetta che si diletta nell’artigianato per la sua comunità.
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