AMAZING (DIS)GRACE

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Cambia tutto e non cambia nulla: ogni 9 maggio vediamo quella montagna di merda

Sapevo cos’era la mafia e sapevo che in tanti erano morti per combatterla: ma di nessuno ne conoscevo la vita vera, e quella sera conobbi la storia di Peppino Impastato

  • 6 maggio 2019

Peppino Impastato

Uno - Entroterra, estate 2001.
La villa comunale del mio paese. Un paese di provincia, nell’entroterra siciliano. Una villa comunale non molto grande ma carina. Ricordo ancora quando la inaugurarono: la mia sorella più piccola aveva da poco iniziato a muovere i primi passi.

Si andava lì, con la scuola, durante "La Giornata dell’Albero" per piantare un alberello per ogni nuovo nato del paese. La ricordo così, quella villa comunale. Un po’ sbiadita. Grande agli occhi di me bambina, una bambina di otto o nove anni, che vede piantare un alberello per la sorella appena nata.

La ricordo anche piena di gente sotto il cielo stellato di agosto. In un agosto di qualche anno dopo, in cui avevo appena iniziato a frequentare il liceo. Avrei iniziato, quel settembre, il secondo anno. E in quella sera di agosto, senza nuvole, senza vento, afoso come sempre, secco come da rito, proiettavano nella villa – per la consueta rassegna "Cinema sotto le stelle" – I cento passi.
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Un film arrivato nella sale alcuni mesi prima. La vita di un uomo, un ragazzo, che non conoscevo. Come non conoscevo la vita di tanti altri personaggi di cui – però – mi avevano parlato tanto a scuola (come Giovanni Falcone o Paolo Borsellino). Sapevo delle loro battaglie, della loro morte. Ma non sapevo della loro vita.

Quella sera – su un telo bianco gigante appeso nella villa comunale – vidi scorrere la vita di un ragazzo. La sua quotidianità. Conobbi la sua famiglia. Le sue passioni condivise con gli amici. La musica ascoltata in auto. Le sue poesie scritte su fogli sparsi.

Sapevo cos’era la mafia – per quanto può saperne una ragazzina di quindici anni – e sapevo che in tanti erano morti per combatterla.

Ma di nessuno ne conoscevo la vita vera: quella che c’è oltre la lapide, oltre le commemorazioni. Oltre i loro nomi incisi ai bordi delle strade o su cartelli stradali, per indicare il percorso per l’aeroporto di Palermo. In quella sera di agosto, conobbi la storia di Peppino Impastato.

Due - Palermo, maggio 2010. "Finalmente lì. Ci siamo. Stiamo per partire". Una mia collega di università, conosciuta da pochi mesi, mi offre un passaggio per Cinisi. Frequentiamo la redazione di una web radio che porta il nome proprio di quel film che vidi per la prima volta a quindici anni e che poi rividi innumerevoli volte con il videoregistratore di casa mia.

Lo stesso videoregistratore che io e le mie sorelle usavamo da bambine per registrare i cartoni animati e i film della Disney. Lo stesso che usava mia madre quando ci teneva ancora sul seggiolone per farci mangiare, per combattere i nostri capricci con dei nastri che, a furia di scorrere e scorrere, diventavano sempre meno nitidi.

Quella narrazione di una vita spesa e sacrificata per un’idea di mondo migliore - nella convinzione che le cose si possano cambiare - mi aveva portato a sperare di poter essere un giorno lì, in quei luoghi, dove tutto aveva preso vita. E dove l’energia di Peppino Impastato continuava a farsi sentire ogni anno. Ogni 9 maggio.

Lei mi offre un passaggio. La redazione della radio – infatti - si spostò per qualche giorno proprio nella casa dove Peppino nacque e crebbe. Dove litigò con il padre – come mi narrava il film. Dove la madre lo comprendeva, soffrendo, in silenzio – come mi narrava il film.

Ed ecco che dopo nove anni realizzai quello che avevo sempre sperato. Toccare con mano quei luoghi, attraversali, viverli, prima di perdermi in un turbine di interviste: musicisti, scrittori, attori, testimoni di quel periodo.

E poi, infine, il corteo: da Terrasini a Cinisi. Dalla sede della radio in cui Peppino Impastato fu capace, armato di solo microfono, di dare fastidio alla mafia. La stessa che aveva di fronte casa. Lì dove si concluse il corteo. Un corteo che non avrei mai più fatto.

Tre - E poi via. Un corteo che non avrei mai più fatto, ma che avrei vissuto tante altre volte attraverso le parole e le foto degli altri. Raccontando per lavoro - attraverso la pagina facebook del quotidiano per cui avrei lavorato successivamente e per alcuni anni – cosa facevano, cosa pensavano, cosa dicevano, come agivano altri giovani universitari che (come me anni prima) attraversavano quelle strade.

E dietro il mio pc, dentro quei social da aggiornare, mi perdevo nelle mie puntuali promesse: il prossimo anno sarò di nuovo lì. Devo tornarci. Devo.

E poi via. Il lavoro, gli esami, lo studio. Si cresce. I primi capelli bianchi, pochi, che strappo e fingo di dimenticare di aver visto. Il viso che inizia a cambiare la sua forma - più spigoloso, meno dolce.

Un badge da timbrare, l’affitto da pagare, l’abbonamento della metro da rinnovare in una città non mia e in cui quel corteo lo vedi ancora più lontano. E dove non lo senti.

Per due volte ho vissuto il 9 maggio fuori dalla Sicilia. E mentre giù era una giornata in subbuglio – "ecco una nuova foto da postare, un nuovo video da condividere, il calendario degli eventi a Cinisi da pubblicare" – qui sembra essere una giornata come un’altra.
Si timbra, si lavora. Poi palestra, spesa, un po’ di tv e poi nanna.

Mi guardo intorno mentre tutto scorre come niente fosse. Vorrei fermare la gente che mi passa accanto e dire "Ma oggi è il 9 maggio! È il 9 maggio! Non è un giorno come gli altri".

Ma non lo faccio.

Chiudo gli occhi mentre sono in pausa pranzo – pausa che voglio trascorrere da sola. Chiudo gli occhi e mi rivedo lì, nel primo piano di Casa Memoria di Cinisi, con quella collega che mi diede un passaggio e che sarebbe diventata un’amica come poche. Che in quella casa conobbi meglio, costruendo le radici per un legame che sarebbe durato per quel frangente di vita che ci è stato concesso.

Chiudo gli occhi e mi rivedo lì, in quel corteo di un maggio caldo, quasi estivo. Mi rivedo lì a gridare che la mafia è una montagna di merda. A osservare le foto di Felicia, ad ascoltare le storie delle sue lotte.

Chiudo gli occhi e vedo me, una ragazzina con i capelli tinti di nero, vestita di rosso e assetata: una ragazzina che voleva saperne di più, voleva sapere tutto. Una ragazzina che ha sperato che le cose potessero cambiare.

E che oggi, non più ragazzina, le vuole ricordare mentre è seduta in una panchina di uno dei tanti parchi di questa città non sua.
E che forse, alle volte, ci spera ancora.
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