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"Silent Hill", un videogame d'effetto ma poco coinvolgente

  • 7 agosto 2006

Silent Hill
U. S. A., 2006
di Christophe Gans
con Radha Mitchell, Sean Bean, Laurie Holden, Jodelle Ferland

In molte recensioni si va affermando entusiasticamente che “Silent Hill” è «allo stato attuale il miglior film basato su un videogioco». Beh, non si tratta di impresa certo difficile, dal momento che sino ad oggi i soggetti tratti dal mondo videoludico, da “Super Mario Bros.” a “Tomb Raider”, da “Street Fighter” a “Mortal Kombat”, da “Resident Evil” a “Doom”, sono stati sfruttati dai produttori hollywoodiani alla stregua di marchi promozionali: instant movies per richiamare in sala i patiti delle console e chiunque altro fosse attratto dal clamore pubblicitario. Che il film avesse anche una sua consistenza era un fatto del tutto secondario.

Peccato, perché la settima e la nona arte (l’ottava è il fumetto), pur divergendo su alcuni aspetti essenziali, possono vantare molteplici punti di contatto, primo fra tutti l’utilizzo dell’elemento audiovisivo per sviluppare la narrazione e per coinvolgere emotivamente il destinatario. L’interazione tra cinema e videogame, su cui si è molto insistito in sede di dibattito teorico, non ha dato ancora i risultati pratici sperati e anzi, paradossalmente, è stata la forma espressiva più giovane a trarre maggior vantaggio da questo connubio.

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Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, gli sviluppatori informatici hanno imparato a sfruttare a dovere le atmosfere del grande schermo, ispirandosi in maniera diretta (la saga del “Padrino”, il mito di “Scarface”, per citare i più recenti) o indiretta (numerose simulazioni belliche, ad esempio, ricreano situazioni già viste in tanti war movies) all’immaginario collettivo cinematografico, senza però mai perdere di vista le specificità del proprio mezzo.

Non si può dire la stessa cosa per il cinema: sino adesso gli adattamenti da videogioco non hanno mai cercato di focalizzarsi sulla vera specificità videoludica, ovvero l’interattività, preferendo puntare su una trasposizione classica del soggetto di partenza, che finisce inevitabilmente per risultare troppo esile e piatta. L’interesse in aspetti quali la partecipazione e il coinvolgimento spettatoriale darebbero sicuramente maggiori frutti e consentirebbero di sperimentare nuove strade e modalità espressive.

Il caso di “Silent Hill” è in parte diverso, perché il regista Christophe Gans (“Crying Freeman”) e lo sceneggiatore Roger Avary (“Pulp Fiction”) sono esperti conoscitori e grandi appassionati della saga realizzata dagli sviluppatori giapponesi della Konami e si sono impegnati per diversi anni nel concepimento di questa versione cinematografica. L’approccio praticato da Gans e Avary si definirebbe, se il soggetto fosse tratto da un romanzo, “trasposizione letterale”. Il testo di partenza viene seguito con fedeltà rimarchevole, non tanto nella trama (alcuni aggiustamenti, in particolare nell’assunto di partenza, si rendevano necessari per adattare la storia alla forma-film), quanto nell’atmosfera.

Ed è questo ciò che conta più d’ogni altra cosa: trasmettere agli spettatori la stessa atmosfera inquietante e delirante che hanno potuto sperimentare i giocatori. Il massimo sforzo è stato teso nella dettagliata ricostruzione digitale della cittadina fantasma di “Silent Hill” e delle abominevoli creature che la popolano: piogge di cenere, frotte di scarafaggi giganti, sgorbi mostruosi.

Tutti quanti minacciano Rose, alla disperata ricerca della sua bimba Sharon, recatasi in quel villaggio desolato perché le è apparso in strane visioni. La stessa cura filologica è stata riposta nella composizione sonora, nella scelta degli interpreti (la piccola Jodelle Ferland è sempre più il “lato oscuro” di Dakota Fanning), nella composizione della messa in scena (affidata a Carol Spiel, fedelissimo di Cronenberg) e financo nella scelta del taglio delle inquadrature e dei movimenti di macchina (che ricalcano quelli del motore grafico virtuale targato Konami).

A Gans e Avary insomma sembra interessare più la geografia dei luoghi che la psicologia dei caratteri. La sensazione è quella di assistere a un videogame su pellicola. Una gioia per gli occhi, ma il coinvolgimento dello spettatore è limitato. Di fronte a “Silent Hill” si può restare ammirati per le prodezze e la visionarietà scenografica, ma non ci si spaventa neppure un po’, né si riesce a provare attaccamento per i personaggi. Ciò che manca è proprio la resa dell’interattività, perché si rimane pur sempre dalle parti dell’horror hollywoodiano d’impianto tradizionale. Se stessimo recensendo un videogioco potremmo sintetizzare così: eccezionale la grafica, ma molto limitata l’interazione.

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