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“Lettere dal Sahara”, affinché l’Occidente possa migliorare

  • 2 ottobre 2006

Lettere dal Sahara
2006, Italia
di Vittorio de Seta
con Djibril Kebe, Paola Ajmone Rondo


Direttamente da Venezia arriva “Lettere dal Sahara”, un film di Vittorio De Seta, uno dei grandi del cinema italiano per il quale l’appellativo "maestro" non basta: maestro di arte, di valori, di umanità, che ha saputo coniugare il grande amore e rispetto per l’uomo con l’arte della cinematografia. Tutta l’opera di De Seta, infatti, di alto valore antropologico (dagli storici documentari degli anni cinquanta, fra i tanti “Lu tempu di li pisci spada”, “Sulfatara”, “Pasqua in Sicilia”, ai lungometraggi “Banditi a Orgosolo” del 1961 e “Diario di un maestro” del 1972), pervasa da una grande umanità e portatrice di valori alti ormai rari in tempi come i nostri, induce a riflettere su quel che oggi rimane nella vita di tutti i giorni del rispetto per il genere umano.

“Lettere dal Sahara” è un altro film di De Seta, che altro dire, pieno di realtà e umanità. La realtà si fa spazio, entra a viva forza nel film, e durante la lavorazione ha indotto anche a modificare la sceneggiatura, come lo stesso regista ha raccontato nel corso della serata della proiezione della pellicola in anteprima a Palermo il 28 settembre alla Tonnara Bordonaro.

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Gli attori ci sono, a comiciare dal protagonista, il bravissimo Djibril Kebe, giovane senegalese già operaio a Firenze (esperto in computer e conoscitore di cinque lingue, racconta De Seta), ma i luoghi sono i luoghi veri di una realtà vera, che da quella storia urla le sue verità, che squarcia non solo lo schermo ma anche i nostri cuori. La vicenda del giovane Assane ci sembra di conoscerla bene, l’abbiamo sentita molte volte dai telegiornali: quella di uno dei tanti immigrati che arrivano in Italia con mortifere carrette del mare (per allegerire la barca un amico del protagonista viene buttato in acqua durante l’infausto viaggio), dopo avere attraversato il deserto (il Senegal è il suo paese).

Dopo molteplici traversie che non è difficile immaginare, Assane riesce ad ottenere il tanto agognato permesso di soggiorno, ma questo non basta a garantire che la sua dignità di uomo non venga violata. È la grande cultura africana che viene qui messa in luce, con la sua arte (molto belle le danze e le musiche del film) e la sua peculiare umanità, una cultura dove quel che conta è la collettività, l’essere fratelli, dove ancora non c’è il denaro quale unico valore assoluto.

Una cultura dove ancora l’umiltà è una grande qualità, come viene ricordato al giovane Assane, tornato nella sua terra smarrito, ferito nel corpo e nell’anima, dal suo maestro africano in un lungo e intenso discorso nel quale è la storia la vera protagonista. La storia della schiavitù, la storia delle umiliazioni, la storia di un mondo, quello occidentale, quello della "civile" Europa che ha seminato orrori e sangue ovunque per mari e continenti, spacciando la sua insaziabile sete di potere per civiltà, ma quale?

Il regista riferisce del più bel complimento ricevuto per questa opera, peraltro dalla lunga gestazione (l’idea del film risale al 1998): che sembrasse un film fatto da un giovane regista senegalese. E solo una mente libera e giovane può concepire opere che vanno al di là delle barriere del tempo, dello spazio, della razza o della religione. Una mente libera come quella che solo gli artisti e i saggi possono avere e giovane come giovane può essere solo chi concepisce il tempo come il ritmo scandito dai battiti del proprio cuore. E così è per questo giovane e libero da sempre grande Maestro, classe 1923. Piccola notazione in chiusura: la bellezza della lingua africana lasciata nel film, dimostra come il cinema è realtà.

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