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Immagini “stupefacenti” e la lezione del maestro Dick

  • 6 novembre 2006

A scanner darkly – Un oscuro scrutare
U.S.A. 2006
di Richard Linklater
con Keanu Reeves, Robert Downey Jr., Winona Ryder, Woody Harrelson, Rory Cochrane, Dameon Clarke, Marco Perella

Non esiste forse autore più difficile di Philip K. Dick da adattare per il cinema. Nonostante le sue intuizioni siano spesso di stampo cinematografico e si prestino particolarmente a essere rese con eccessi di visionarietà visiva (cosa che ne spiega l’enorme fortuna su grande schermo), Dick rimane scrittore difficile e oscuro, che nei propri romanzi stratifica significati e suggestioni difficilmente traducibili, fondendo la fantascienza con il pamphlet politico, le riflessioni filosofiche e teologiche con un’analisi acuta delle tensioni sociali e controculturali dell’America anni Sessanta (ma che valgono anche ai giorni nostri).

Questo spiega perché, al di là del capolavoro di Ridley Scott "Blade Runner" (finora l’unico in grado di prendere di petto la sfida metafisica, vincendola proprio nella misura in cui è riuscito a discostarsi dall’ombra ingombrante dell’originale), quasi nessuno abbia voluto cimentarsi con la reale portata dei testi dickiani. La maggioranza degli adattamenti ha scelto la strada più facile della trasposizione di superficie, che si ferma all’apparenza esteriore di genere senza spingersi in un più profondo scavo semantico, a volte con risultati non disprezzabili (“Total Recall” e “Minority Report”), ma comunque non da considerarsi rappresentativi dello spirito dell’autore.

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Lo scostante Richard Linklater, studioso e appassionato del maestro, è forse l’unico ad essersi imposto la linea della fedeltà filologica e dell’aderenza al messaggio d’origine. Fedeltà che può sì essere un limite, perché impedisce al film di spiccare il volo su un piano autonomo, ancorandolo alla letterarietà di partenza (a partire dai troppi dialoghi), ma che garantisce in ogni caso un risultato complessivo più che soddisfacente, rispettoso, mai trasgressivo ma al tempo stesso mai convenzionale. A cominciare proprio dalla tecnica del “rotoscope”, vecchio cavallo di battaglia di Linklater, qui però usata in maniera funzionale al racconto.

Gli effetti speciali che appiattiscono la realtà del girato dal vivo, trasformandolo in cartone animato dalle campiture uniformi e dagli effetti di luce stilizzati, sono gli emblemi di un nuovo stato confusionale percettivo: l’azzeramento dimensionale e lo “schiacciamento prospettico” di realtà e allucinazione, resi ormai indistinguibili. L’estetica da fumetto, con le nuvolette a rappresentare pensieri e sogni, e quella dell’immagine filmata, il fast forward per saltare i tempi morti, si sincretizzano in un’unica modalità di rappresentazione digitale, fondata sull’artificialità della visione (e della droga…) sintetica.

Una suggestione, quella di Dick, che si situa perfettamente nel dibattito sullo sguardo contemporaneo (e che naturalmente ne riconferma lo straordinario talento visionario e predittivo). Il dilemma del rapporto tra osservatore e osservato si estremizza fino al caso di massima soggettività possibile, quello in cui chi guarda e chi è guardato coincidono in un medesimo soggetto. La scissione delle proprie attività percettive non può che condurre alla schizofrenia, al bipolarismo celebrale. Le immagini si moltiplicano e mutano all’infinito, proprio come la tuta proteiforme che il protagonista indossa per mascherare la propria identità. L’incertezza dello sguardo e l’indecibilità percettiva si riverberano anche sulla conoscenza dello spettatore. Imprigionato tra cambi di prospettiva e colpi di scena (più o meno illusori) non è in grado di discernere le linee di fuga dei personaggi in un finale che s’interrompe troppo presto. Non ci resta che continuare a scrutare nell’oscurità…

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