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“I giorni dell'abbandono”: la coppia Buy-Zingaretti

  • 26 settembre 2005

I giorni dell'abbandono
Italia, 2005
Di Roberto Faenza
Con Margherita Buy, Luca Zingaretti, Goran Bregovic, Alessia Goria, Sara Santostasi, Simone Della Croce

L’abbandono è una delle più dolorose condizioni del nostro tempo, uno strappo emotivo capace di negare ogni possibilità di vivere con lucidità il nostro quotidiano. E’ l’irruzione di un sentimento tragico che si scioglie banalmente nel fluire ininterrotto dei nostri giorni, una dimensione dove la realtà e la fantasia si confondono. L’abbandono è uno dei principali squilibri che regolano, oggi come oggi, i nostri rapporti, il linguaggio dell’amore e dell’amicizia, segnato da nuove afasie ed incontenibili conati di desiderio: il tutto all’insegna di una nevrosi che lascia inappagati ed in balia di quella incomunicabilità che è l’essenza della infelicità dell’uomo contemporaneo. Un tema scottante e persistente, dunque, sul quale è giusto soffermarsi, purchè lo si faccia col giusto pudore e la necessaria intelligenza. La scrittrice Elena Ferrante (di cui non si conosce la vera identità, potrebbe scrivere sotto falso nome) ha pubblicato un bel libro assai denso, “I giorni dell’abbandono”, che adesso è diventato un film per la regia di Roberto Faenza, visto in concorso all’ultima edizione della mostra di Venezia. La protagonista è interpretata da Margherita Buy, attrice che possiede il giusto aplomb, buona a trasfigurare gli umori di una donna in crisi d’identità e di sentimenti, buona ad esprimere solo con lo sguardo il vuoto dei sensi e del senso (che ci travolge tutti), la caduta negli abissi di chi attraversa la sofferenza di una solitudine coatta, la devastante espressione di chi avverte l’incombere troppo veloce di un futuro crudele.

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La Buy riesce ad incarnare i passaggi dalle tenebre alla luce grazie alla sua abilità di attrice vera, capace di rendere credibile anche un personaggio – limite. Nel film si chiama Olga, di mestiere fa la traduttrice ed è madre di due bambini avuti con il marito Mario (un Luca Zingaretti come al solito sopra le righe). Le prime sequenze raccontano l’incolmabile distanza della coppia, i litigi compressi, l’esplosione improvvisa degli scatti d’ira rivolti ad un uomo colpevole di aver attraversato distrattamente la strada a piedi. L’uomo si chiama Damian (il balcanico Goran Bregovic), un musicista solitario che è un vicino di casa della coppia. La crisi coniugale ha come teatro principale le mura domestiche, il talamo dove i due erigono barriere sempre più resistenti e dove ogni tenerezza sembra negarsi. Olga è la moglie di un uomo che ha smesso di amarla, un uomo il cui egoismo conduce a negare l’esistenza di una nuova relazione e del conseguente tradimento. Una volta che la tempesta si abbatte sulla donna, non è più sufficiente nemmeno la conquistata consapevolezza, ed ogni gesto quotidiano (anche la comunicazione di un guasto all’azienda telefonica) diviene il pretesto per lo sfogo di una nevrosi pericolosa. Non resta che la fuga, l’abbandono dei figli Gianni e Ilaria (Simone Della Croce e Sara Santostasi) e delle cure domestiche. Ad Olga viene proposto un nuovo lavoro di traduzione, ma in esso la donna riesce ad immettere arbitrariamente alcuni temi che riguardano la propria esistenza. Una confusione tra realtà e finzione, la stessa che il regista Faenza provoca nel trasporre la vicenda del libro della Ferrante, caricandola di un letale eccesso di simboli capaci d’infastidire il pubblico e di pesare sulla già incerta drammaturgia del film. La figura della barbona sporca di nero che vive di fronte casa di Olga, un alter ego della donna fin troppo incombente, la scena cult della soggettiva del ramarro (sì, del ramarro!), infilato sotto il letto della camera dei pargoli, e attraverso il quale scorgiamo il volto deformato della Buy sono alcuni dei tanti incomprensibili ed esaltati voli pindarici di Faenza.

In questa goffa galleria di metafore zoologiche c’è pure il cane Otto, vittima sacrificale che accidentalmente muore avvelenato dopo aver masticato una bomboletta d’insetticida, per ritornare sotto forma di fantasma attraversando in ralenti il palco di un teatro dopo che il musicista Damian ha appena finito di eseguire il suo concerto. C’è modo e modo di raccontare il dolore. Si capisce come l’ansia dei finti autori del nostro cinema possa condurli a percorrere le impervie strade del ridicolo profuso. Per una volta, le reazioni dei critici al Festival veneziano non sono state eccessive. Il film ha avuto pure i suoi difensori d’ufficio: Natalia Aspesi parlando de “I giorni dell’abbandono” ha definito “innocente” il povero Faenza, come se la colpa fosse della storia e non dello stile con la quale è raccontata. Il fatto è che, nel comporre questa sua ultima ed infelice opera, nel narrare la nevrosi della sua protagonista, Faenza si è fatto prendere la mano, recuperando un immaginario medio da rubrica psicoanalitica modello rotocalco, propendendo per un taglio assai ruffiano simil- televisivo, badando poco a controllare cinematograficamente l’abborracciata sceneggiatura. La verità è che per essere Antonioni ci vuole gusto e senso della misura, ci vuole quella capacità di rendere visibile l’invisibile che è la dote degli autentici maestri. Quando queste doti non si posseggono, allora è meglio limitarsi a raccontare con umiltà e coraggio, come sapeva fare Matarazzo. Né la musica originale di Bregovic (che in un contesto come questo appare vieppiù ruffiana assieme alla canzone finale di Carmen Consoli), né altri elementi, come le accorte e funzionali scenografie, servono a salvare il film. E ancora una volta, ci ritroviamo con il buon vecchio Zavattini a ripetere che la colpa non è degli attori ma di certi registi. Intanto la crisi del cinema italiano continua.

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